Le "crisi" nella Storia dell'Arte (#15): La visione brandiana

in #ita6 years ago

Parti precedenti:
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14.

Vorrei chiudere qui la serie (di neo-avanguardie, pop, o postmodernismo magari parlerò in seguito, chissà) e lo farò usando le parole di Cesare Brandi, in una sintesi di un suo articolo del 1949. Un po' datato ma ancora attuale.
Scrive D'Angelo in un saggio introduttivo al libro "La fine dell'Avanguardia" edito nel 2008 da Quodlibet:

“Ora che il Postmodernismo […] sembra entrare in crisi, e che ci sentiamo sul limitare di qualcosa d’altro […] è forse tempo di tornare a riflettere su quello che Brandi diceva quasi sessant’anni fa”.


Insomma una situazione temporale analoga a quella in cui si trovava Brandi, nello spartiacque tra la modernità e l’epoca nostra.
Le citazioni sono tratte dal libro. Ne consiglio l'acquisto, per chi fosse interessato a queste tematiche, la visione brandiana è molto singolare; una voce fuori dal coro.


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La fine dell'avanguardia.

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Se di Avanguardia si deve parlare è opportuno cercare le sue origini, ed esse non possono che essere ritrovate nell’Ottocento romanticista. Il Romanticismo, nel suo sviluppo più enfatico, è la matrice dalla quale si muovono tutti i rami dell’Avanguardia. In questi anni (1949) si osserva un dissolversi di tali tendenze, processo che parte dall’origine di loro stesse:

Come da vari crateri le varie colate di lava che si fermano l’una prima l’altra dopo, ma nessuna passa una certa punta estrema; e poi la lava si fredda. L’eruzione esaurita, ne seguirà forse un’altra, non la stessa.


Pensando al Romanticismo è chiaro come esso sia frutto di una certa disposizione della coscienza umana che in quei tempi (dalla Rivoluzione Francese in poi) si identifica sempre più prepotentemente nell’aspetto “rivoltoso” di fronte all’esistente. Arrivando a definirsi nella rivolta, tale disposizione di coscienza, presupponeva un forte distacco dal passato e di conseguenza anche dal futuro, in un presente in continuo movimento, dove chi reazionariamente si fermava era perduto. Eppure, nonostante tutto fosse in movimento, sussisteva un qualcosa che nel succedersi delle vicende era sempre uguale: la disposizione di coscienza della quale si sta parlando.

La novità era quindi un qualcosa di fondamentale che non poteva essere evitato e tale spasmodica ricerca ebbe i suoi più forti sviluppi nei campi artistici di pittura e scultura. Molte furono le correnti che si succedettero e si intersecarono fra gli anni delle due guerre mondiali, alcuni molto vicini al Romanticismo come il Futurismo italiano (considerato come l’ondata ritardataria romantica in Italia), altri più lontani e addirittura che ponevano uno stacco netto dalla matrice, come il Cubismo. Nelle varie interpretazioni date a quest’ultima corrente, si sviluppò il Blaue Reiter che a sua volta generò l’Astrattismo.

Invece come reazione al Cubismo troppo anti-romantico, in una nuova rivalsa, e sulle vecchie fondamenta dadaiste, nasce quindi il Surrealismo che in ogni caso rimarrà anch’esso schiacciato durante la seconda guerra mondiale, ma soprattutto nel dopoguerra, e a maggior ragione in Europa:

Dall’America, rimasta in piedi con tutti i suoi grattacieli, non potevano capire quanti cadaveri reali e non surreali rimanessero sotto le città distrutte dell’Europa.


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Immagine CC0 creative commons J. Mirò, Hirondelle amour, 1933-34.

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Quella del Surrealismo fu un’ondata che ben poco lasciò intonso; tutte le correnti e le arti rimasero fortemente ammorbate, fatta eccezione per l’architettura, e seppure continui a vivacchiare in vari gruppetti che di tanto in tanto si riuniscono, la fine della guerra non può che aver decretato la fine dello stesso. D’altronde la stessa fine era già presente nella sua nascita, che se dal Dadaismo traeva in toto l’approccio nichilistico, su tale tabula rasa aveva l’intenzione di costruire qualcosa di nuovo; una nuova metodologia conoscitiva che si basava sull’inconscio e sull’irrazionale, tirandosi esplicitamente fuori da altre implicazioni, politiche o artistiche col fine di evitare i possibili rischi di un esaurimento dello stesso in qualcosa di ridotto (nell’approccio di Breton).

Ma queste fondamenta non potevano condurre a tanto:

L’accanimento di Breton, per conservare al Surrealismo la sua equidistanza da arte e politica, significava ancorarlo a produrre confuse gestazioni […] racconti di sogni, interrogativi medianici e altri perditempo.


Se lasciato a se stesso non conduceva a niente ed era un continuo rigirare e vagare sui medesimi punti; in questo senso non ha potuto sviluppare le buone potenzialità che comunque portava sotto altri punti di vista, come le metodologie analitico-creative e l’automatismo.

Tuttavia, anche più esteso il Surrealismo come tentarono alcuni, al campo artistico, a quello politico e addirittura a quello delle “scienze occulte”, tendeva a condurre lontano da esso stesso, in definitiva negandosi. Questa corrente moribonda lasciò nel secondo dopoguerra una falla considerevole che in qualche modo doveva essere riempita; nella pittura e nella scultura si optò per una sorta di miscuglio fra Cubismo, Matisse e Romanico non pensando al fatto che tutto ciò non aveva potenzialità di portare a un qualcosa, per le contraddizioni insite a questo nuovo tipo di eclettismo.

Nel successivo sviluppo il passo dal Cubismo all’Astrattismo fu breve:

Per la prima volta nella storia dell’arte si è visto a distanza di trent’anni riprendere una stessa esperienza […] con la certezza glaciale del punto di arrivo e senza neppure l’azzo di un diversivo.


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Immagine CC0 creative commons G. De Chirico, Interno metafisico con biscotti, 1916.

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La condizione italiana d’oggi (1949) risulta invece singolare; il Cubismo, seppure non accolto come corrente, fu compreso nel suo intimo di distacco dall’arte e natura ottocentesca, e diede adito alla Pittura metafisica di De Chirico, Carrà e Morandi. Con quest’ultimo si raggiunge uno dei punti più alti nell’arte delle’epoca moderna, eppure la continua voglia di novità spinge al rifiuto di un qualcosa che era stato prima della guerra.

Il quadro è quindi questo, dove si vuole imporre come avanguardia di volta in volta un qualcosa di già sondato o comunque di marginale rispetto al Cubismo:

Un’avanguardia già vecchia, quest’avanguardia che sa benissimo di non poter avere alcun sviluppo, di essere, come ogni ripetizione, parassitaria dello spirito e della cultura; fine dell’avanguardia, dunque.


Parlando quindi dell’Astrattismo che ormai impera (in quegli anni) in tutta una società, non si può evitare di inscriverlo all’interno di ciò che già è stato detto, nonostante abbia un successo molto forte (spiegabile come uno dei casi più estesi di inautenticità dell’attualità). Il continuo ricercare formalismi non può che condurre alla più semplice geometria, e qualora si tenti per vie diverse di non evitare di muoversi nei campi di giudizio fra bello o brutto si dovrà giungere come fece Read, a ritrovare questa bellezza nella essenzialità della geometria. Se una importanza si deve attribuire all’Astrattismo, essa è di ordine retroattivo, poiché può essere considerato come terminale Romantico; chiude un’epoca e non la apre, per questo non può essere considerato una pura avanguardia.

Passando al campo letterario, per fare avanguardia, anche in esso è indispensabile la volontà di contrapporsi a un qualcosa, utilizzando tecniche o contenuti nuovi, e in questo senso possiamo considerare d’avanguardia, primo fra tutti James Joyce. Egli, di prima formazione simbolista, s’ispiro a Mallarmé, conducendo il discorso linguistico e del linguaggio agli estremi sviluppi; se in Mallarmé per mezzo di particolari espedienti lo scopo era quello di caricare ogni parola di tutto ciò che recava, in Joyce tale pratica sfocia in una parola nuova, nell’autoreferenzialità: troppo personale e quasi gratuita. Il fallimento dell’operazione, del quale Joyce stesso si accorse, è riscontrabile nel suicidio finale di Virginia Woolf, nell’opera Finnegan’s Wake, ultima produzione dell’autore.

Un caso a parte è quello di Kafka, che potrebbe sembrare come ultimo esponente della corrente romantica; il fatto è che in lui i mezzi romantici si elevano quasi a metafisica, e tutta la sua poetica assume sembianze conformi all’Esistenzialismo. Ciò che è sopravvissuto dei due autori citati (ma anche a Proust, Lawrence o altri)

è la spregiudicatezza dell’argomento, la minuzia referendaria dei tratti più scabrosi, con una freddezza quasi scientifica o di resoconto poliziesco. Non c’è novità, c’è sorpresa e scandalo.


Continuando il discorso con il Romanzo Americano, nonostante le tecniche, seppure già note in Europa, possano parere caratterizzanti un certo modo avanguardistico di porsi, non può essere considerata tale; inoltre possiamo considerare chiusa questa età, finita.

Approdando infine in Italia, alla poetica di Montale, neanche la stessa possiamo considerare Avanguardia, perché

non si ribella e non ha nulla di nuovo da offrire, ma solo i residui di un mondo perduto, ossi di seppia, polvere d’astri.


L’Avanguardia è quindi qualcosa che rimane solo come moda o commercio, quindi fonte di guadagno, e il rifiuto a porsi come Avanguardia va di pari passo con questo fatto; anche nell’architettura organica che secondo un certo punto di vista può essere considerato l’unico movimento avanguardistico reduce, non foss’altro per un certo distacco dall’architettura del passato. Ma tale distacco non può totalmente prescindere dal razionalismo, e quando l’organicità si spinge sempre più in là non può che avvicinarsi nettamente ai risultati funzionalistici.

In passato l’Avanguardia era stata il Liberty, l’Art Nouveau, poi soppiantata in un rigurgito, dal razionalismo che alle orpellature opponeva la nuda parete; divenne quindi impossibile per questa parte di architettura non tessere legami con L’Astrattismo e con il Cubismo: Bauhaus e Gropius, e Le Corbusier.

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Immagine CC0 creative commons Le Corbusier, Ronchamp.

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Ci troviamo ora in un momento storico in cui l’architettura ha “eliminato” tutto ciò che precedeva; interno e esterno contrapposti o meno non sono più i cardini di un nuovo modo di vedere la spazialità, si parla oggi dell’uomo, dell’uomo in atto, quindi dalla funzione che lo stesso deve svolgere negli spazi: l’esterno è conseguenza dell’interno, e tutto ciò deriva soltanto dall’uomo.

Nel naturalismo di Wright non si tratta più la contrapposizione natura-uomo, bensì si tratta di un uomo inscritto nella natura, e agli esterni viene richiesto solo

di non disturbare quella natura, che, rispetto all’uomo che vi si trova, è appunto ambiente, onde l’universo è spazio interno all’uomo.


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Immagine CC0 creative commons F. L. Wright, Casa sulla cascata.

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Il passaggio quindi, dal funzionale all’organico, è fortemente legato all’Esistenzialismo, e in questo senso possiamo considerare l’architettura al di fuori del Romanticismo, al di fuori dell’Avanguardia.

Nel fronte musicale è da considerarsi evoluzione più moderna quella della Dodecafonia. Questo ambito artistico si differenzia dagli altri però, e tale differenza si basa sul fatto che comunque sia il discorso storico musicale ha seguito sempre una stessa scia, dove la varie “dissonanze” di volta in volta comparse sono state espulse o metabolizzate, senza che tutto ciò comportasse fratture nette. La Dodecafonia appare quindi come l’evoluzione ultima del percorso musicale occidentale, oltre il quale non è più possibile andare, o che forse si apre verso nuovi spazi non prevedibili:

[…] e solo ora (la musica) con la Dodecafonia, viene a trovarsi in uno spazio prodigiosamente trasformato: la nuova pratica – per dirla in senso monteverdiano – pur presumendo l’antica, postula una realtà sonora che noi non possiamo più prevedere sulla base di nuove barriere da infrangere o di dissonanze da conquistare, essendo ormai tutto infranto, tutto caduto.


Più della Dodecafonia è il Jazz che è stato considerato musica d’avanguardia.
Se per la popolazione nera americana, che inventò il genere, il Jazz fu una sorta di rivangamento delle loro origini africane, nella ricerca di un qualcosa di selvaggio, nato nella fatica del lavoro delle piantagioni o nel degrado delle periferie, per la popolazione bianca fu uno sfogo dettato dalla necessità impellente di emanciparsi dalla vecchia Europa. Seppure politicamente fosse già raggiunta l’emancipazione, a livello culturale l’America non aveva nulla a cui riferirsi, nel quale riconoscere un proprio ethos, una tradizione comune nuova e diversa rispetto a quella europea. Per loro fu solo una moda, una via per staccarsi dalla monotonia della vita, niente di più; tant’è che il Jazz se staccato dalla propria matrice nera, diventa canzonetta e be-bop, qualcosa di veramente poco interessante a livello artistico.

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Immagine CC0 creative commons Louis Armstrong.

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In Europa invece, il Jazz fu recepito in maniera diversa, non come folclore ma nella espressione formale musicale che offriva. Si è visto però che staccato dal proprio contesto, dall’ethos che l’aveva espresso, non risulta capace di reinventarsi, risulta più statico di quel che si crede, non potendo quindi essere incamerato nella grande famiglia delle Avanguardie.

Il teatro, se non per una rara e costosa élite, non è più teatro, è circenses. I circenses sono allora di due specie, il cinematografo e gli spettacoli sportivi.


Alleato del cinematografo è il fumetto che, arrivato prima in Italia, importato dalle truppe americane vittoriose, fa sì che possa radicarsi un pensare cinematografico; si legge e si vedono le immagini relative a quel che si legge allo stesso tempo, provocando un affievolimento delle attività intellettive. Nel cinematografo non vi è bisogno di un tramite di cultura, l’universalità dello stesso si basa sulla percezione e non sull’intuizione, motivo per il quale ci si spiega la sempre più larga affermazione dello stesso (a maggior ragione se pensiamo all’astrusità dell’arte moderna).
Il cinematografo si fa intermediario fra il pubblico astante e l’esistente; una coscienza di riproduzione che trasforma il potenziale fruitore di arte in fruito e agito.

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Immagine CC0 creative commons

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Sulla scia di questo concetto vi è un altro fenomeno molto simile, quello del tifo legato a manifestazioni sportive. Il tifoso non mette nulla in gioco, è solo spettatore di un qualcosa sul quale non ha nessun potere decisionale, non rischia niente.
Ciò che più teme l’uomo moderno è la solitudine, e tutto ciò che costringe a rivolgersi ad un qualcosa che sta al di fuori di se stessi è ben accetto; così il cinematografo, dove ci si focalizza sulla vita di altri e il tifo sportivo allo stesso modo. Una passività che trova un buon alleato nel movimento continuo, che impedisce di fermarsi a contemplare se stessi.

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Di forte interesse il passo in cui dici che i nuovi mezzi di comunicazione come il cinematografo (novi allora, così come possono essere nuovi oggi i più diversi applicativi della rete), avevano scoperto che dovevano far leva più sugli stimoli percettivi degli interlocutori che sullo stuzzicare le loro capacità cognitive.

eh... vedi quanto è interessante la storia, se la si sa leggere. Questo saggio che ho cercato di sintetizzare è attualissimo! Si possono condividere o meno le conclusioni ma l'analisi è molto lucida.

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