10. Uno di troppo (parte seconda)steemCreated with Sketch.

in #ita6 years ago (edited)

Miei carissimi Steemians (si dice così?), è l'ultimo post dell'anno per me.
Il Natale si avvicina con le sue innumerevoli distrazioni, ci sono diverse cose da sistemare fuori e dentro casa, e da qualche settimana finalmente ho anch'io un dentista, cosa che mi turba profondamente.
Il racconto richiederà inoltre un'attenta riflessione, su quando e come introdurre nuovi scenari e personaggi.
Per queste e altre ragioni credo di dover fare una pausa, durante la quale spero di avere più tempo per leggere meglio anche i vostri, di post.

Vi ringrazio ancora per avermi accolto in questo simpatico gruppo vacanze per bloggers in erba.
Le Arcimaghe tornano dopo la Befana.

Baci, abbracci e auguroni a tutti!

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(Immagine CC0 Creative Commons by Pixabay)

Il primo colpo fu incerto, il secondo più potente, il terzo non lasciò via di scampo.
Da lì in poi, Disgrazia perse il conto delle sassate.
Il ricordo della donna spietata che gli aveva affibbiato quel nome riaffiorò per l'ennesima volta, e con esso anche le bastonate di Bill e gli insulti di quella strega di sua moglie, le risate e le angherie dei ragazzini del villaggio, l'indifferenza di chi avrebbe potuto aiutarlo, la paura che gli aveva sempre impedito di reagire e vendicarsi.
Aveva fiutato la sua occasione, e aveva superato quella paura: ora non riusciva più a fermarsi.
Colpì finché le braccia glielo permisero; quando lasciò cadere la pietra appuntita, di Enator erano rimasti solo gli effetti personali.

Era come se tutta la sua vita non fosse stata altro che un lunghissimo preludio a quel preciso momento. Ogni incertezza era svanita come per magia: per la prima volta, Disgrazia sapeva esattamente cosa fare.

Liberatosi dei suoi stracci, se ne servì per ripulirsi del sangue dell'unica persona disposta a spezzare una lancia in suo favore.
Solo una stretta alla bocca dello stomaco lo fece esitare: non era la morsa della fame, dacché le strane gallette di Enator gli avevano donato un vigore sorprendente, e non era nemmeno l'orrore della morte, dal momento che aveva già visto macellare fin troppe bestie, e ai suoi occhi gli Uomini erano soltanto bestie più feroci e astute.
Poteva assomigliare al rimorso, invece; ma quella era una parola che Disgrazia non aveva ancora imparato, e non era semplice catturare un sentimento che non aveva un nome, specialmente dopo aver sentito per la prima volta la carezza del velluto sulla pelle.
Aveva un vero vestito, adesso, e non era certo l'unica sorpresa: gli averi del suo defunto benefattore comprendevano anche un'arma dall'aria assai pericolosa - una daga, avrebbe appreso in seguito - e una piccola scorta di gallette e cordiale.
C'erano anche altre monete - tante, e tutte d'argento! - e soprattutto quei robusti stivali...
Forse valeva la pena di uccidere qualcuno solo per sapere cosa si provava ad avere i piedi caldi e asciutti, pensò mentre si dimenava goffamente dentro quegli abiti troppo grandi.
Per ultimo infilò l'anello di Enator.
"Un portafortuna con impresso il simbolo della mia famiglia."
Diversamente dal resto, il gioiello gli calzò perfettamente al dito: sembrava fatto apposta per lui.

Un brivido di eccitazione lo investì, come quando, anni prima, era fuggito lungo la riva del Fiume Impetuoso.
L'impresa era fallita ben presto, ma quella volta Disgrazia non aveva armi, denari né mezzi di trasporto, né tantomeno un cadavere di cui rendere conto a eventuali inseguitori.
Stavolta, Dantes il ronzino lo attendeva docile sulla riva del Grande Fiume; il suo olfatto conosceva già troppo bene l'odore del sangue, e la crudeltà degli Uomini non riusciva più a spaventarlo.
«Stavolta ce la faccio, oppure muoio: una delle due», disse Disgrazia balzandogli in groppa.
Era venuto il momento di scoprire quali terre si celavano oltre l'ansa del fiume: non c'era più altra scelta.

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(Immagine CC0 Creative Commons by Pixabay)

Doveva solo trovare un posto qualunque dove spendere il suo argento, poi sarebbe stato libero e felice per sempre.
Da quanto aveva potuto osservare, gli Uomini preferivano sempre combattere tra poveri; a nessuno sarebbe saltato in mente di dargli fastidio, ora che possedeva monete, gioielli e persino una lama affilata. Men che meno di fare domande.
Credeva perciò che stabilirsi nel primo villaggio fosse la parte più semplice del piano, ma si sbagliava: quando il sole del mattino seguente illuminò le Terre Brulle, non aveva ancora incontrato anima viva.
Sembrava che persino i banditi e i reietti avessero abbandonato quelle inospitali terre di confine; se non altro, ciò gli consentì di proseguire senza impedimenti. Le notti avevano smesso di essere gelide, i viveri di Enator lo tenevano sveglio, le foglie da pipa rimastegli lo aiutavano a convincersi di aver fatto l'unica cosa giusta, l'unica scelta possibile.
Tutto attorno a lui appariva selvaggio, immutato. Non un comignolo, non un rudere, come se nessun essere umano vi avesse mai messo piede.
Quel fiume però doveva pur sfociare da qualche parte, continuava a ripetersi.
Seguitando a costeggiare il corso d'acqua, cominciò a smarrire la nozione del tempo; il quarto giorno di marcia somigliava paurosamente al terzo, oppure era il quinto? Gli sembrò di scorgere un'ombra con la coda dell'occhio e sobbalzò, voltandosi di scatto; ma non c'era nessuno, e forse era anche peggio.
Colto dal panico, dimenticò di far riposare il ronzino e lo spronò a sangue.

Un nuovo sole era sorto da poco, quando Dantes crollò sulle zampe anteriori. Per poco Disgrazia non finì schiacciato sotto la cavalcatura. Fu tentato di accasciarsi a sua volta, ma vide che un ammasso di colline era apparso a sud: quale posto migliore per edificare un villaggio?
Il grido di un falco riaccese in lui un barlume di speranza: era il primo essere vivente che incontrava da giorni, e qualcosa doveva pur significare.
Mandò giù l'ultima galletta e proseguì a piedi, bramoso di raggiungere al più presto le colline. Nel peggiore dei casi, si disse, avrebbe potuto mangiare qualche bacca e guardare il mondo dall'alto, avvistando qualche lontano insediamento.

Più accelerava, tuttavia, e più la meta pareva allontanarsi.
Una volta che anche l'ultima briciola di cibo fu assorbita, tutta la stanchezza che non aveva ancora provato gli piombò addosso in un sol colpo. Le ginocchia cominciarono a cedere, e la vista a offuscarsi; voci immaginarie gli si accalcarono nella testa mentre i piedi scorticati imploravano pietà.
Stramazzò al suolo, ma neppure in quel momento si pentì della sua decisione.
Aveva pur sempre fatto un tentativo, e ce l'aveva messa tutta. Valeva la pena di morire, pensò, pur di non dover sopportare un minuto di più Bill e gli altri. Qualunque cosa sarebbe stata meglio della vita che si era lasciato alle spalle.
Vi era indubbiamente un che di leggiadro e confortante, nel non avere più nulla da perdere... E diamine, ora aveva proprio voglia di un'ultima fumata.

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(Immagine CC0 Creative Commons by Pixabay)

Credette nuovamente di scorgere un'ombra ai margini del campo visivo, ma stavolta non vi diede peso. Si sdraiò su un fianco e premette qualche foglia rinsecchita nel braciere della pipa. Fu solo quando le ombre cominciarono a moltiplicarsi che si degnò di sollevare lo sguardo.
«Non vedete che ho da fare?», protestò debolmente.
Per tutta risposta, le ombre incoccarono e tesero le corde; Disgrazia sentì i lunghi archi da guerra scricchiolare tutto attorno a sé.
Avevano giubbe leggere e cappucci scuri: somigliavano a briganti, almeno per come se li era sempre immaginati.
«Dicci il tuo nome, e il motivo della tua presenza qui», lo interrogò il più piccolo di quel gruppetto di arcieri dal volto coperto.
Allora Disgrazia gli sorrise. Sperduto in una landa senza legge, circondato da frecce pronte a dilaniarlo, esausto e senza più nulla di cui cibarsi, sorrise.

"Ritrovo mio figlio e non lo porto con me..."

Le parole di Enator gli erano tornate in mente in un improvviso lampo di genio.

"Cambia nome, possibilmente. È un consiglio..."

Sorrise perché per la prima volta sapeva esattamente chi era.
«Sono Dantes Yavùil. Figlio di lord Enator», disse esibendo il grosso anello d'oro e rubino.
Come d'incanto, gli assalitori abbassarono lentamente le armi.
«Riesci a camminare?», domandò il piccoletto. Dal tono della voce, sembrava essersi rabbonito.
«Credo di no. Ci sono stati dei prob...»
«Ti portiamo noi», decise immediatamente l'altro.

Dantes il nobiluomo rimirò con gran stupore il suo anello.
Cominciava a credere che quel gingillo portasse davvero fortuna.

(Continua...)

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