Come diventare un musicista di successo (CDUMDS). Capitolo secondo - studiare musica

in #ita7 years ago (edited)

Gli esercizi teorici per chi intraprende lo studio della musica, sono di una noia mortale.
Gli esercizi pratici per chi intraprende lo studio della musica, sono di una noia mortale.

Sommate le due cose, aggiungeteci un totale disinteresse verso lo strumento prediletto, e avrete una vaga idea di come mi sentissi io.
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La teoria basilare, per un neofita, è quella di scrivere le note sul pentagramma, trascrivere semplici spartiti in puro stile copia-incolla, giusto per prendere confidenza con i simboli, il nome delle note, la loro misura e la tonalità.

Il simbolo abbiamo detto cosa sia, la misura più o meno pure, il nome alle note glielo abbiamo dato, vediamo un attimo cosa è la tonalità.
La tonalità di una nota è la sua posizione sul pentagramma e sulla relativa scala. Senza perderci in tecnicismi inutili (che non fanno parte di questa opera) per sommi capi, Do è il nome che viene dato a una data frequenza sonora. Le potenze di due (positive o negative) di questa frequenza, danno note simili, che prendono lo stesso nome. L’intervallo tra un Do e il successivo, si chiama ottava.
Sempre Do sarà, ma uno di un’ottava più basse ed uno di un’ottava più alta. Lo stesso vale per tutte le note. Nel pentagramma il primo rigo in basso abbiamo detto essere un Mi, il primo spazio un Fa, e andando in ordine sopra e sotto rigo-spazio-rigo-spazio, le note si susseguiranno. Re (spazio sottostante), Mi (primo rigo), Fa (spazio sovrastante), e via dicendo. I nomi delle note sono uguali ma differiscono per tonalità, e queste ultime vengono identificate con la posizione sul pentagramma.

Come esercizio, dovevo individuare la nota sul pentagramma, scriverne il nome e la sua misura.
Una volta fatto questo processo, le dovevo solfeggiare. Il maestro Graziano, la lezione successiva, avrebbe voluto ascoltarmi solfeggiare, avrebbe voluto vedere i miei movimenti sicuri e non incerti, e non avrebbe di sicuro soprasseduto.
Finita la teoria, si passava alla pratica, e dovevo imparare a suonare le cose appena trascritte.
Nei primissimi mesi di apprendimento di questa arte, e dello strumento, ci si ritrova soli ad affrontare delle lunghissime semibrevi, solfeggiate o suonate. Quando si è fortunati la varietà prevede delle minime e massimo delle semiminime. I primi esercizi sono sulle note semplici, la scala di Do. Si parte dal Do appena sotto il primo rigo, si arriva al Do al terzo spazio, e si ritorna al Do. Do, Re, Mi, Fa, Sol, La, Si, Do, Si, La, Sol, Fa, Mi, Re, Do.


[scala di Do formata da semibrevi [pixabay](http://www.pixabay.com]

Lunghezze variabili, che vanno perciò dai quattro quarti, a un quarto. Sempre solfeggiate e suonate. Probabilmente, come facevo io, il primo approccio con la tastiera avviene con un solo dito, l’indice della mano destra.
I primi passi, sono sempre ed esclusivamente note sequenziali. Difficilmente prima di qualche mese di studio si suoneranno salti di note. Per suonare, per dire, Do – Mi – Sol – Si, ci vorrà molta dimestichezza con la lettura e l’interpretazione del pentagramma e della posizione dei relativi tasti sulla tastiera. Metabolizzare teoria, concetto di nota, chiave, rigo, spazio, tempo, e viaggi intergalattici è una cosa a lento rilascio.
Se studi molto ci vuole meno, ma in ogni caso, qualsiasi insegnante in questa fase non va di corsa, perché è l’alfabeto musicale ed è bene farlo radicare col tempo necessario.
Quante paginette di a,b,c maiuscole e minuscole ci hanno fatto scrivere alle elementari? O le paginette di numeri? A me personalmente tante, troppe. E ogni pagina pensavo: “si ok è una A ormai la so fare!”. Eppure più paginette abbiamo fatto da bambini, e più oggi la nostra scrittura è chiara, consapevole, leggibile. Ci descrive.
La musica funziona allo stesso modo, solo che in più suona.

Tutto ciò era noioso, noiosissimo. Mortalmente noioso. Io ve le ho appena accennate, e sono fortunato se siete arrivati a leggere fin qui. Immaginate come mi sentivo io, a sei anni.

Se avessi studiato quell’oretta quotidiana pattuita (?), sarebbe stato tutto più agevole e veloce. Studiare, però, non vuol dire aprire un libro, e desiderare intensamente che arrivi presto l’ultimo rigo del paragrafo, farlo controvoglia pensando ad altro.
Lo studio è un desiderio morboso, l’esigenza di dedicarsi a quell’argomento, a causa di una curiosità e un’interesse incontrollabile, che ti porta a non voler fare nient'altro che quello. Ricordatelo sempre bambini, e studiate!

Io, questo desiderio lo conoscevo benissimo: lo provavo ogni volta che nelle mie vicinanze c’era un pallone, e veniva soffocato ogni volta che mi avvicinavo ai fogli pentagrammati e alla Korg Ds-8.
Nei miei momenti da bambino libero, quando potevo fare più o meno quel che mi passava per la mente (nel cortiletto di casa) prendevo quasi sempre il pallone, e lo calciavo facendolo rimbalzare sulla facciata.
Quel muro color mattone, con un pallone di cuoio che raccoglieva un consistente quantitativo di polvere, ad ogni tiro da campione rimaneva timbrato in maniera indelebile. Impossibili da nascondere, le impronte del mio pallone saltavano subito agli occhi dei miei genitori, soprattutto di mio padre, che quella facciata l’aveva costruita e ne conosceva ogni millimetro quadrato.
Per punizione mi rinchiudeva la palla nello sgabuzzino, per un tempo variabile da poche ore a qualche giorno.
Diciamo che me lo ridava quando se ne ricordava, o quando si era rotto le scatole di sentirmi frignare.
Il piccolo viale di casa, già pista da corsa per la mia bicicletta, quando mi dedicavo al calcio lo immaginavo uno stadio di serie A, con tanto di pubblico. Aggiungiamo pure che ero “fresco” dei miei primi Mondiali consapevoli - Mexico 86 - e il sogno di diventare calciatore era ricorrente. Perciò mi cimentavo in tiri al volo, semirovesciate, dribbling battimuro a difensori immaginari, e poderosi tiri in porta (sempre immaginaria).
Non era raro che, calciando verso la porta immaginaria, non facessi una prodezza. Dovevo rincorrere perciò a tutta velocità, un pallone che si dirigeva verso la strada principale, rischiando di finire sotto qualche macchina.
Spesso riuscivo ad evitarlo, altrettanto spesso no. Succedeva che il pallone raggiungeva la strada, talvolta. E la mia preoccupazione era esclusivamente che il pallone, in un episodio del genere, si bucasse.
In una di queste occasioni, capii che il pallone bucato non era il pericolo maggiore, semmai il pericolo lo correvano gli automobilisti che impanicati da un oggetto estraneo, avrebbero potuto avere un incidente. O magari, che so, qualcuno su un motorino.
La bionda ragazza si trovò nel posto sbagliato al momento sbagliato, e io quel giorno stavo giocando anche con il pallone sbagliato: un "super santos", pallone famoso per il suo controllo quasi totalmente nelle mani del vento.
Il mio tiro verso la porta immaginaria fu troppo potente e il pallone si diresse velocemente verso la strada. Lo rincorsi a tutta birra, ma non riuscii a raggiungerlo, e ballonzolando attraversò tutta la carreggiata. Non incrociò nessuna macchina, ma si invaghì della bionda ragazza. A bordo del suo “Si” (motorino – e non scooter – molto in voga in quegli anni), un po’ a causa del destino beffardo, e un po’ a causa dello spavento nel vedere un oggetto apparire dal nulla, si ritrovò il pallone fra la ruota anteriore e la posteriore, con un tempismo perfetto, e fece una rovinosa caduta.

Si_piaggio.jpg
[un Si di libero utilizzo]

Fuggii subito dentro casa, ero impaurito, colpevole, mi sentivo sporco. Pensavo di aver ammazzato quella ragazza, ed era tutta colpa mia.
Mi guardai bene dal dirlo a qualcuno.
Nessuno doveva sapere che a causa mia una ragazza era morta, e stavano ancora raccogliendone i pezzi sulla strada.
Pochissimi minuti dopo suonò alla nostra porta un signore, che conoscevo bene, perché frequentava il circolo anziani adiacente a casa. Avevano assistito alla scena e aiutato la ragazza.
Venne a cercare mio padre per denunciare il fatto, vistosamente alterato nei miei confronti, probabilmente perché la poveretta era sua figlia. Io li guardavo a debita distanza, non volevo certo stargli vicino. Capivo però che mi accusava – giustamente – di aver causato quel disastro.
Mio padre, penso che in quel momento avrebbe preferito sotterrarsi e scomparire. Cercò di scusarsi per quanto possibile, e si andò a sincerare delle condizioni della malcapitata.
Lo scenario che avevo immaginato, fortunatamente, era eccessivo. Aveva qualche graffietto, poco più. Il “Si”, già di suo non raggiungeva vette di velocità impensabili, lei non stava cercando di battere il record del circuito, e il mio super santos non era una bomba a mano. Se la sarebbe cavata con qualche ora di riposo, qualche cerotto e un po’ di acqua per sedare lo spavento. Trovai il coraggio di andare a guardare anch’io, la ragazza mi lanciò un’occhiataccia, ma era rassegnata al fatto che era stata solo una tragica fatalità.
Mortificato, mio padre si scusò di nuovo, con me di fianco, e quando tutto sembrò essere tranquillo, ci congedammo. Non disse niente.
Chissà che fine fece fare al mio super santos, non ho mai più avuto il coraggio di chiederglielo.
Quel giorno, però, ricordo che per la prima volta andai spontaneamente verso la sala musica. I miei sensi di colpa erano talmente grandi, che decisi di ripagare i miei dimostrando di essere un figlio diligente, pronto ad ascoltarli, e ad essere quello che avrebbero sempre voluto. Perché andando per la mia strada, e facendo di testa mia, ero pericoloso, e potevo fare del male alle persone, il fatto successo pochi minuti prima ne era la dimostrazione.
Scrissi, solfeggiai, e suonai la scala di Do a volume altissimo, così che tutti potessero sentire che stavo studiando.
E da quel giorno in poi tutto cambiò.
Questa buona volontà svanì già il giorno successivo.

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Ah! Sensazioni che conosco bene visto che la mia professoressa di pianoforte mi ha fatto venire il disgusto dello strumento grazie alle ore di pallosissimo e aridissimo solfeggio. Oltretutto la perfida signora mi metteva le matite puntate sotto ai polsi per non fare "scendere" le mani mentre suonavo. E mi ricordo il saggio di pianoforte come uno dei momenti più mortificanti della mia vita...primo perchè avevo 12 anni ma mia madre mi aveva vestito con un vestitino a fiori degno di Laura Ingalls nella piccola casa della prateria. E poi perché ero circondata dai piccoli virtuosi del pianoforte e a me invece tremarono le mani durante tutta la mia penosa rendizione della marcia alla turca.
Il tutto ha fatto che la mia carriera di pianista fu assai misera e corta e, contrariamente a te (anche se é tutto ancora da vedere!) non diventai mai una musicista di successo :(

Ah.. Vedo che le storie in qualche modo possono trovare dei riscontri anche nelle vite delle altre persone..siamo stati tutti bullizzati da qualche maestro! Mi dispiace per la tua carriera...a me è andata 10.000 volte meglio....forse.

Eheh non ti dispiacere...dopo anni ho recuperato lo smacco del pianoforte mettendomi alla batteria dove, ovviamente, ho saltato in toto la parte tecnica e ho imparato a suonare a orecchio ;) Ma quella é un'altra parte della mia saga...

Se hai letto i primi passi della mia storia, sai che io, adesso e per sempre, ti sto odiando!!!!

Io mi son fermato al flauto, e non quello traverso. Questi contrasti emotivi con gli strumenti musicali e con la disciplina necessaria ne li ricordo, come racconti degli amici.
Se diventa una passione però... 👍👍👍😀

Il flauto, alle medie: ce l'ho!!!
😂😂😂😂 io sto raccontando quella che più che una passione ho sempre definito ossessione...

😂pensa che io ne ho più di una. Tutte eterogenee fra loro (per fare un esempio vanno dalla ricerca dei tartufi alle writing haha). Fatte tutte, all'inizio, per litigare con mio padre 😂😂

E raccontacele... Cosa aspetti!!

Fatto 😂😂
Sto facendo
Forse farò ancora
Un passo alla volta - sto cercando di capire

Mai capito perchè c'era la minima, la semiminima, ma la breve no.

La breve esiste, dura 8/4 ed è usata solamente nella musica antica. Molto molto rara. Potremmo pensare di scriverci una canzone però, il vintage è tornato di moda!

Potremmo scrivere una canzone di una Breve. La chiameremmo Brevemente.

Oddio, la breve è un incubo da solfeggiare e da cantare (anche se in genere i tempi sono dimezzati). Figurati se si chiamasse lunga.

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