PostIT - n.150

Quando i computer (le macchine computazionali) erano oggetti fisici e mentali per pochi intenditori, curiosi e innovatori, guardati con scetticismo dai più e con superficialità dagli intellettuali, il lavoro di scrittura era un’operazione rigorosamente manuale. Artigianale, quasi: carta, penna e calamaio, macchina da scrivere, carta copiativa e fogli leggeri che andavano ad abbozzare l’idea che si faceva strada tra le tante di chi si cimentava nella scrittura. Scrivere era un mestiere, lento, faticoso, che richiedeva dedizione, pazienza, attenzione: l’errore corrispondeva a una riga nera a sbarrare la parola, appunti a margine aggiungevano osservazioni, ripensamenti, chiose a margine e intuizioni. Un testo finito, impaginato e pronto alla pubblicazione era frutto di sudore, in un epoca non poi così remota. Questo stesso testo, invece, si sta digitando quasi da solo (e infatti se l’autore volesse potrebbe dettarlo a l’Ok Google o Siri di turno) sulla tastiera digitale, immateriale e impalpabile di uno smartphone. Errori di battitura si correggono automaticamente, in un attimo si cancella il ripensamento, la scrittura si fa veloce, dinamica, istantanea. L’accesso alla scrittura si è fatto quindi più democratico e aperto. Chiunque può scrivere ciò che pensa. Ma c’è una cosa che resterà immutabile: avere qualcosa da dire, per davvero. Qualcosa da raccontare, da comunicare, che è questo poi il fine ultimo di qualsiasi atto di esternazione del sé: instaurare un dialogo con gli altri, per ricavarne sempre qualcosa in più.

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