Gli animali possono suicidarsi?

in #ita6 years ago

“Cathy died in my arms, of suicide. It was just before Earth Day, 1970 […] She looked me right in the eye, took a breath, held it, and she didn’t take another one. She just sank to the bottom of the water”

Molti conoscono Flipper, la famosa serie televisiva trasmessa dal 1964 al 1967 negli USA, che aveva come protagonista un delfino domestico e la sua famiglia adottiva. Al contrario, pochi sono al corrente della tragica sorte che colpì Cathy, uno dei cinque esemplari di tursiope (Tursiops truncatus) che recitavano ciclicamente nel ruolo di Flipper. Le parole sopra riportate si riferiscono a questo triste evento e a pronunciarle, con gli occhi lucidi e lo sguardo perso, è Ric O’Barry, l’addestratore di Cathy. Questa persona oggi è conosciuta come il maggior attivista in materia di salvaguardia dei delfini, e dopo quell’evento ha cominciato una lotta viscerale contro i delfinari e le strutture che tengono i mammiferi marini in cattività a scopo ludico. Il fatto che l’azione di Cathy possa essere definita suicidio o meno agli occhi degli esseri umani, non è solo questione di interpretazione. Ci sono vari aspetti che vanno analizzati per poter rispondere a un quesito che più volte è emerso dividendo tanto la comunità scientifica quanto l’opinione pubblica tra scettici e fervidi sostenitori: gli animali possono suicidarsi?


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I suicidi darwiniani

Effettivamente, osservando con sguardo puramente evoluzionistico, ci appare inconcepibile che un animale possa scegliere di togliersi la vita consapevolmente perché la giudica insostenibile. Uno dei motivi fondamentali è che tendiamo a ritenere possibili quei comportamenti che risultino vantaggiosi a livello di fitness, e un suicidio, chiaramente, non lo è. In realtà, però, esistono anche alcuni esempi di suicidio che potrebbero essere spiegati in chiave evoluzionistica; in questo caso, si parla appunto di suicidi darwiniani e si può far riferimento ad almeno due diverse situazioni: il caso delle termiti kamikaze e quello delle formiche suicide. Nelle società di termiti Neocapritermes taracua è noto come le lavoratrici anziane, ormai usurate e incapaci di alimentarsi, accumulino all’interno di vescicole una sostanza viscosa che, se spruzzata, esercita un’azione tossica nei confronti di potenziali invasori. In questo modo, smettono di ricoprire il ruolo di lavoratrici e si armano per proteggere la comunità dalle invasioni. Questo può definirsi suicidio perché il meccanismo di difesa di queste guerriere è quello di far scoppiare volontariamente la vescicola riversando all’esterno il contenuto nonostante questo determini, a tutti gli effetti, la loro morte. Nel caso delle formiche, invece, è stato osservato che in Forelius pusillus ogni sera un certo numero di individui si impegnano nel sigillare dall’esterno la colonia come forma di protezione. Una volta terminato il lavoro queste formiche si allontanano e, la mattina successiva, non ne resta traccia. Nel tentativo di approfondire questo comportamento, Adam Tofilski e il suo team di ricerca hanno deciso di osservare più da vicino questa specie isolando e mantenendo gli individui che restavano confinati all’esterno del formicaio. Soltanto 6 formiche su 23 sono riuscite a superare la notte mentre le altre, stremate dal lavoro compiuto, sono morte. Anche in questo caso si può parlare di suicidio perché gli individui, di fatto, si sacrificano per costruire una protezione (lavorando instancabilmente anche per un’ora di seguito) e pagando un prezzo molto alto, spesso estremo. Tuttavia, nonostante vengano etichettati come suicidi, biologicamente hanno una spiegazione che si può ricercare nei meccanismi della socialità. Oltre a questo, se da una parte l’individuo è più o meno consapevole del proprio destino (per quanto in questo caso il concetto di consapevolezza possa essere aleatorio), dall’altra i soggetti rinunciano alla propria vita ma in nessun caso esiste un collegamento con l’insostenibilità della stessa.


Questione di antropomorfismo?

Se con gli insetti è abbastanza semplice ragionare in termini biologici, il discorso si complica se ad essere chiamati in causa sono dei vertebrati o, ancora di più, dei mammiferi. Questo perché con i mammiferi è molto più facile farsi guidare alla derivi da principi antropomorfi, e basta curiosare velocemente sul web per scoprire casi di animali domestici che si suicidano dopo la morte del padrone o del leone anziano ferito che decide di morire. In questo modo la lente antropomorfica è ciò che deforma la realtà e porta a interpretare la morte dell’animale domestico come tentativo di sopprimere il dolore insopportabile per la perdita del padrone o il gesto eroico del leone ferito nel riconoscere la propria debolezza abbandonandosi alla morte volontariamente. D’altro canto, come se le interpretazioni distorte non bastassero, nel mondo virtuale è facile imbattersi persino in leggende come quella dell’Overtoun Bridge, in Scozia. Questo ponte è stato citato molte volte dai mass media i quali lo definivano, in modo molto fantasioso, “il ponte dei cani suicidi” a ragione del fatto che un numero molto alto di cani era morto gettandovisi. Nonostante siano state date delle spiegazioni più che plausibili da etologi e comportamentalisti (gli esperti collegano questo fenomeno alla presenza di una tana di visone sottostante che, con il forte odore, avrebbe spinto i cani a un inseguimento sfrenato che terminava con la caduta dal ponte) schiere di persone guidate dalla suggestione preferiscono credere a un’altra ipotesi. infatti, l’ipotesi più accreditata e suggestiva, secondo l’immaginario comune, resta comunque quella della presenza di uno spirito conosciuto come la “Dama bianca di Overtoun” che guiderebbe le anime tramite il ponte dal mondo dei vivi a quello dei morti. Questo esempio tratta, ovviamente, di un caso-limite che sfocia nella leggenda, ma in una situazione come quella dell’animale domestico o del leone, se osservassimo la scena con un sano distacco, risulterebbe evidente che esiste una linea di demarcazione tra quello che può essere definito effettivamente suicidio e il semplice “lasciarsi morire”. Se consideriamo la visione umana di suicidio, il soggetto che compie l’atto sa che questo lo condurrà alla morte, ma si può dire lo stesso del cane che smette di mangiare e del leone che si lascia morire? Sul fatto che gli animali possano provare dolore, nostalgia o percepire l’assenza di un compagno non si discute. Tuttavia, la morte è veramente lo scopo che l’animale vuole raggiungere smettendo di nutrirsi oppure, più semplicemente, è soltanto una diretta conseguenza di quel comportamento in risposta al dolore della perdita?


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Il problema della soggettività

Se viene accettato come tale il suicidio negli esseri umani mentre, quando si parla di animali, l’argomento si tinge di scetticismo, significa che in qualche modo riconosciamo la presenza di differenze tra queste due categorie, sia dal punto di vista percettivo che comportamentale. Secondo quali parametri definiamo un suicidio “valido”? In realtà è difficile dare una risposta precisa perché ci sono tantissimi aspetti e non sempre possono essere considerati singolarmente, tuttavia ci si può concentrare su tre concetti chiave: la soggettività riflessiva, il libero arbitrio e la consapevolezza della morte. Mentre il terzo punto è stato in parte spiegato nel paragrafo precedente, è necessario approfondire gli altri due per poter meglio comprendere quali teorie e contraddizioni si nascondano dietro questo argomento. Con soggettività riflessiva si intende la capacità di un soggetto nel riconoscere sé stesso come individuo capace d’azione, separato dalla realtà e da altri individui che lo circondano. Questo viene spesso considerato un requisito fondamentale perché, per autoinfliggersi un danno, l’animale dovrebbe essere in grado di interpretare sia il soggetto che l’oggetto dell’azione. In realtà è noto che ci sono vari gradi di soggettività e che essa non è una misura univoca che sottostà al dualismo “c’è” o “non c’è”. Infatti, può esserci la condizione base in cui un individuo è in grado di distinguere tra animali che sono membri della propria specie e quelli che non lo sono in base al fenotipo, questo livello non necessita di una capacità cognitiva perché si può riscontrare anche nelle cellule del sistema immunitario (riconoscimento self/non-self) e in creature senza un sistema nervoso sviluppato. Allo stesso modo, un individuo può essere in grado di distinguere sé stesso dagli altri e questo costituisce un livello più avanzato rispetto al riconoscimento fenotipico, perché sottintende che il soggetto sappia riconoscersi come individuo e stabilisca un confine tra “io” e “non-io”. Il livello più complesso, che comprende e ingloba i due precedenti, è quello in cui un soggetto è in grado di pensare al proprio comportamento in relazione alle azioni degli altri. Questo livello riguarda tutti gli animali sociali, compreso l’uomo, e consente di mettere in atto dei meccanismi mentali che vanno anche oltre l’area di competenza della biologia. A questo punto, è chiaro che qualsiasi animale possieda almeno il grado più semplice di soggettività, alcuni hanno addirittura superato il mirror test (il test che stabilisce se un individuo, posto davanti a uno specchio, sia in grado di riconoscersi) dando prova di raggiungere il grado intermedio di “io”/”non-io”. Questo ultimo aspetto, però, si scontra con un’incongruenza secondo la quale esistono umani in cui comportamenti suicidi sono stati documentati, ma che potrebbero non soddisfare i requisiti di una teoria della soggettività, come i bambini. Allo stesso modo, ci sono animali non-umani che regolarmente superano il mirror test e, almeno secondo questo standard, soddisfano i requisiti della riflessività. Di conseguenza o si ammette che alcuni eventi catalogati come suicidi in ambito umano non siano tali, o non si può affermare che i suicidi animali non lo siano a causa dell’assenza di soggettività.


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Il libero arbitrio

Spesso si sostiene che gli animali non possano suicidarsi essendo il suicidio l’espressione massima del libero arbitrio che, in teoria, solo gli esseri umani hanno. Per gli animali non-umani, infatti, si parla piuttosto di istinto di sopravvivenza, che dovrebbe prevalere bloccando la possibilità di andare oltre. In questo senso, il libero arbitrio sarebbe l’asta che consente agli umani di saltare oltre l’istinto di sopravvivenza e, quindi, oltre l’area di competenza scientifica. Sempre secondo questo principio, se una morte autoindotta può essere spiegata in modo naturalistico (tramite processi biologici, chimici, fisici o psicologici), restando quindi nell’area di competenza scientifica, non potrà essere considerata un vero e proprio “suicidio”. Tuttavia, riportiamo di seguito due esempi differenti che, messi insieme, mettono questa teoria in contraddizione. Il primo esempio riguarda l’ambito animale e mostra la risposta comportamentale di un roditore in seguito all’infestazione ad opera di un parassita, Toxoplasma gondii. I roditori sono animali estremamente schivi, la loro natura di prede li porta a vivere in anfratti bui e ristretti. Raramente si espongono esplorando spazi aperti e, quando lo fanno, si muovono velocemente evitando i predatori e aiutandosi con il loro olfatto molto sofisticato. Tuttavia, nei roditori che ospitano Toxoplasma gondii si è notata un’insolita tendenza non solo nell’esplorare gli spazi aperti, ma addirittura nel ricercare volutamente l’odore del predatore. Questo perché il parassita invia dei segnali che stravolgono la percezione del pericolo e portano a un’inversione tale per cui l’odore del predatore diventa irresistibile. In questo modo il parassita spinge il roditore tra le braccia del predatore e potrà continuare il suo ciclo. Il secondo esempio riguarda l’ambito umano e mostra gli effetti collaterali causati da alcuni antidepressivi. Gli antidepressivi più popolari contengono degli inibitori che agiscono su dei meccanismi che coinvolgono la serotonina (SSRI), spesso definita come “l’ormone della felicità”. Questi inibitori influenzano il cervello e in alcuni casi possono portare i pazienti a degli stati emotivi tipicamente collegati al suicidio (aggressività, depressione, manie e altro). Supponendo in entrambi i casi la morte autoindotta dei soggetti e data l’evidenza di una spiegazione biologica nel caso del roditore, a primo impatto definiremmo come suicidio solamente il secondo. In realtà, volendo sostenere l’influenza del libero arbitrio, o affermiamo che lo siano entrambi, o entrambi non lo sono. In entrambi i casi, infatti, è possibile identificre un fattore che ha alterato la percezione e la capacità di libero arbitrio dei soggetti (il parassita nei ratti e l’antidepressivo negli umani). Seguendo questa linea, esistono infiniti fattori che possono alterare la percezione del soggetto a tal punto da spingerlo al suicidio (pensieri, disperazione, tossicodipendenza, ambiente, lavoro, legami…), ma questo va ad ostacolare pesantemente il semplice concetto di libero arbitrio che, in questo modo, appare declassato. Di conseguenza, se non si utilizza il concetto di libero arbitrio per dare un senso al suicidio umano, perché lo si dovrebbe usare per escludere la possibilità di questo gesto negli animali?


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Lo strano caso dei delfini suicidi

Come si evince dalle parole di Ric O’Barry all’inizio dell’articolo, si ritiene che i delfini smettano di vivere per mezzo dell’asfissia auto-indotta, ma cosa ci fa pensare che questa pratica sia effettivamente suicidio? Perché i delfini dovrebbero essere diversi da tutti gli animali citati fino ad ora? Ci sarebbero troppe parole da spendere per descrivere quanto questi mammiferi marini siano straordinari, ma ci sono due cose su cui è interessante soffermarsi: la struttura del cervello e la fisiologia della respirazione. Il cervello dei delfini è molto simile a quello degli umani, grande e complesso. La parte coinvolta nel pensiero di ordine superiore (neocorteccia) è addirittura più complicata di quella degli umani. Inoltre, il loro sistema limbico (controllo della memoria ed emozioni a lungo termine) è molto sofisticato e questo li rende potenzialmente abili, in caso di stress da cattività, a formulare dei processi mentali coinvolti in stati motivazionali complessi come quelli che accompagnano i pensieri legati al suicidio (depressione, frustrazione, demotivazione…). Per questo motivo i delfini sono sorprendentemente intelligenti, con un livello molto alto nei gradi di soggettività dimostrato anche (ma non solo) dal superamento del mirror test. Allo stesso modo, la respirazione consta in un meccanismo che potrebbe potenzialmente rendere il suicidio molto più praticabile di quanto si possa pensare. Negli uomini la respirazione è involontaria, anche i migliori campioni di apnea, alla fine, hanno una risposta involontaria che in mancanza di ossigeno forza la respirazione. Questo meccanismo è ciò che rende possibile l’annegamento e che fa sì che un bambino non muoia se dovesse trattenere il respiro per protesta. I delfini, invece, sono dei respiratori volontari, ogni respiro che fanno è una decisione consapevole che, se non viene presa, porta alla morte per asfissia. Non esiste, in loro, il meccanismo di sicurezza che si attiva nel momento dell’estremo bisogno di ossigeno e, d’altra parte, sarebbe molto pericoloso in natura considerando che questi animali trascorrono la maggior parte della loro vita in apnea sott’acqua. È molto più comodo in questo caso aver la possibilità di rendersi conto quando manca l’ossigeno in modo tale da avere il tempo di risalire senza respirare fino al punto in cui questa azione divenga sicura. Per questo motivo non è appropriato usare il termine “annegamento” ma viene definita “asfissia auto-indotta”. È più corretto dire che, invece di accorgersi che l’ossigeno sta finendo e di risalire come farebbero in natura, si accorgono ugualmente ma decidono di restare sul fondo finché non muoiono.


Conclusioni

A questo punto è chiaro che tutti questi elementi possano essere considerati in modo diverso. C’è chi crede che i delfini siano un caso isolato e non possano essere presi come ambasciatori del mondo animale oltre all’uomo, e c’è chi, al contrario, pensa che siano la prova schiacciante. Tuttavia, il meccanismo che porta al suicidio è estremamente complesso, a tal punto da non essere compreso a fondo nemmeno negli esseri umani. Questo rende veramente difficile stabilire se sia possibile o meno associare il suicidio ad animali non-umani, così come le teorie finora elencate, senza dubbio, non provano a priori questa possibilità. Si può però affermare che se le teorie finora esistenti non sono in grado di dimostrare l’esistenza del suicidio anche nel mondo animale, suggeriscono anche che questa possibilità non può essere rifiutata a prescindere. Quindi, ad oggi, non siamo in grado né di negare questa possibilità, né di confermarla. La cosa più importante, allora, è prendere atto che queste teorie forniscono gli strumenti attraverso i quali ognuno di noi può essere in grado di costruire la propria idea, concedono, a entrambe le tesi, il beneficio del dubbio; questo dubbio rappresenta (o così dovrebbe essere) il motore che ci spinge a continuare nella nostra insaziabile ricerca di una risposta.


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Bibliografia


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Wow! veramente un bell'articolo @spaghettiscience ! ci tenevo a commentare in quanto sono un vostro fan, ho letto nel vostro primo post che siete ragazzi dell'università di biologia se non sbaglio, ci tenevo a farvi i miei complimenti, anche io sono fortemente attratto da biologia e in generale per i vari rami delle scienze (io studio psicologia), e trovo che il vostro modo di scrivere sia veramente professionale, quindi continuate così!
Nicola

Grazie mille @snakecharmer03! La nostra idea iniziale era proprio quella di coinvolgere il più possibile in questi discorsi anche chi non arriva direttamente dalla biologia... Quindi direi che, almeno in parte, abbiamo centrto il bersaglio ;)

Ne approfitto per invitarti nel server Discord del @davinci.witness; rappresenta un po' la base di itaSTEM (la comunità scientifica italiana collegata a steemSTEM), e ovviamente c'è posto anche per la psicologia! Ti aspettiamo!

Ecco il link al server: https://discordapp.com/invite/JXSwmB6

Grazie ragazzi apprezzo tantissimo l’invito, ora mi aggiungo e grazie mille della disponibilità, come ho già detto continuate così che andate forte!!!

Bellissimo articolo: grazie @spaghettiscience!

Da più parti ho letto che gli animali con un ciclo respiratorio più lento sono più longevi: mi piacerebbe leggere un tuo articolo su questo tema... ti va?

P.s.: volevo votare quest'articolo, ma pare sia troppo tardi... sarà per il prossimo! ;)

Ciao @crmilazz! Prima di tutto grazie ;)

Per quanto riguarda il respiro lento ammetto di non conoscere bene l'argomento, ma penso si tratti piu di un associazione che di un rapporto di causalità vero e proprio. Un respiro lento potrebbe essere associato a un metabolismo altrettanto blando, ed è quest ultimo a essere riconducibile alla durata della vita: pensa agli animali che vanno in letargo o a quelli che sono in grado di entrare in criptobiosi, di fatto bloccano il proprio metabolismo, preservando il proprio organismo da tutta una serie danni collegati a situazioni di stress. E durante il letargo essendo basso il metabolismo diminuisce sensibilmente anche la frequenza del respiro.

Il respiro è indubbiamente ciò che ci tiene in vita, ma allo stesso tempo potrebbe essere una delle cause principali dell'invecchiamento. Esistono numerose ricerche in merito, ma si crede che i radicali dell'ossigeno (per farla breve, le forme esauste dell'ossigeno, dopo che l'abbiamo utilizzato) siano proprio alla base della "vecchiaia".

Resta comunque un argomento molto interessante e su cui c'è molto da fare. Per esempio, alcuni animali, come il lupo, sono in grado di cambiare volontariamente il proprio tipo di respiro per far fronte a situazioni di stress.

Grazie per la risposta e per il tempo che mi dedichi!

Non so quanto tu possa considerare scientifico questo testo, ma ecco un estratto da Autobiografia di uno yogi di Paramhansa Yogananda:

Si potrebbero fornire numerosi esempi del rapporto matematico che esiste fra il ritmo respiratorio dell’essere umano e le variazioni dei suoi stati di coscienza. Una persona la cui attenzione è totalmente assorbita nel seguire un’argomentazione intellettuale assai intricata o nel tentare un’impresa fisica difficile e delicata, automaticamente respira con molta lentezza. La fissità dell’attenzione dipende da una respirazione lenta; respiri accelerati o irregolari si accompagnano, inevitabilmente, a stati emotivi dannosi come la paura, la concupiscenza, la rabbia. La scimmia irrequieta respira trentadue volte al minuto, a differenza dell’uomo, che respira in media diciotto volte. L’elefante, la tartaruga, il serpente e altri animali noti per la loro longevità hanno un ritmo respiratorio inferiore a quello umano. La tartaruga, ad esempio, che può raggiungere l’età di trecento anni, respira soltanto quattro volte al minuto.

Sono felice d'aver stuzzicato il tuo interesse e spero di leggere quanto prima un tuo articolo in merito.

Felice domenica!

Più scientifico di quanto si possa pensare ;) vedo cosa si riesce a fare! Mettersi in gioco su argomenti nuovi è sempre un piacere...

Buona domenica anche a te!

Per qualche motivo non ho mai pensato a questa domanda, non so perché, solo in qualche modo non ho mai dovuto pensare a questo argomento. Così, mi sembra che ogni essere vivente abbia sentimenti e pensieri, quelli di suicidio invece arrivano solo dopo qualche esperienza insopportabile vissuta. Nasce un sentimento di odio, dopo di che un essere vivente può arrivare ai pensieri veramente cattivi. La cosa principale è che non sia qualcosa con la mia famiglia. Sono molto preoccupato per loro, ho persino installato un sistema di sicurezza Ajax https://ajax.systems/it/ in modo da poter reagire, almeno fare qualcosa, in un momento difficile, anche se prima non è mai successo nulla.

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