LE STORIE DI GERARDO: Il nostro Natale

in #ita6 years ago

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Continua la saga dei racconti di Gerardo.

Ricordo che ne sto curando la selezione e l’editing delle sue storie, scegliendo anche tra le sue foto e i suoi disegni, per arrivare presto ad una pubblicazione. E ho deciso di condividerle in anteprima con la comunità italiana di Steemit per affetto nei suoi confronti, perché mi manca e perché a mio avviso vale davvero la pena leggerle.

E’ la nostra storia. La nostra memoria. E poiché il Natale è appena passato, ho pensato che questo racconto calzi a pennello…

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“Léna! Léna! Léna! Pe jo foch'e Natale a sera!…”

"Legna, legna! Per il fuoco della notte di natale!" Era il richiamo che lanciavamo noi ragazzini.
Ci eravamo investiti dell’onere di raccogliere la legna per il fuoco di Natale. Un fuoco più grande possibile, che potesse raggiungere con il suo calore il Bambinello sull’altare. Laggiù, in fondo alla chiesa.

Andavamo in giro per il paese richiamando l’attenzione delle donne per farci dare un ciocco. "Per riscaldare il Bambinello, sora Lè…”

E, intanto a bassa voce, ripetevamo: “Legna, legna noi vogliamo, se non la date la rubiamo!”

E già… la voglia di realizzare un falò molto grande ci faceva sentire autorizzati, dallo stesso Bambinello (!), a rubare pezzi di legna da quelle cataste che si trovavano, numerose, in strada vicino alle abitazioni.

Le cataste, che erano la scorta per tutto l’anno. Erano alla portata di tutti, ma nessuno del paese avrebbe osato toccare la catasta di un altro. Sarebbe stata una vergogna!

Ma questo non valeva per noi: noi eravamo scusati dal fine benefico...

I proprietari, qualche volta, si accorgevano delle nostre malefatte e venivano a riprendersi il maltolto. Molto spesso con gli interessi e, ahimè, davanti alla chiesa. Davanti a tutti…

Nel gruppo vigeva la regola che tutti noi ragazzi dovevamo partecipare alla raccolta. Nessuno escluso. E se qualcuno svicolava cercando di non farsi vedere, noi lo minacciavamo di non presentarsi assolutamente a riscaldarsi davanti al fuoco, durante la festa. E quando lo si vedeva in giro per il paese, veniva fatto bersaglio dei nostri insulti e delle nostre sassate...

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A lanciare i sassi, vi assicuro, eravamo tutti dei veri campioni!
Non miravamo mai al bersaglio grosso, ma lanciavamo raso terra per colpire, eventualmente, le gambe. Siamo stati dei gambizzatori ante litteram!

Oggi certe cose non si concepiscono, ma noi eravamo ruspanti ed un po’ selvaggi… Ma sicuramente meno violenti di certi personaggi virtuali delle fantasie e dei giochi di oggi…

Noi quella roba lì non l’avevamo. Si stava in strada e, se si combatteva, si combatteva per davvero!
Se c’era da litigare lo si faceva con una lotta a sbattere a terra, senza pugni o contusioni. Chi non ce la faceva più diceva ”Pace!” e l’altro mollava immediatamente la presa. E si tornava amici come prima.

A volte qualche sassata arrivava in testa… Un errore. Davvero non si voleva...

”Tutto bene?”
”Ma che sei scemo?! …si, tutto bene…”
”Scusa, non volevo…”

Una sciacquata ai capelli con l’acqua del fontanile e si riprendeva a giocare e a combattere.

Ma i segni della battaglia si notavano quando si veniva tosati! Perché allora, per noi ragazzini, c’era solo un tipo di taglio di capelli: cortissimi o, come spesso capitava, a zero.

Per questo servizio, non essendoci un barbiere in paese, alcuni si avvalevano delle capacità di qualche familiare, quasi sempre il padre. L’opera non era mai perfetta e il più delle volte uscivano fuori delle teste piene di sforbiciate a scale che suscitavano ilarità e commenti: “Co’ tutte quelle scale in testa puoi salire fino in Paradiso!”

E le canzonature da dover sopportare… “Coccia pelata senza capigli, tutta la notte ci cantano i grilli e ci fao la serenata, bona sera coccia pelata!”

Chi se lo poteva permettere andava a Cappadocia, da Vincenzino jo Cincio che era, allo stesso tempo, barbiere, calzolaio, edicolante, …e fonte di qualsiasi informazione e pettegolezzo del paese!

Chi avrebbe mai potuto immaginare un taglio a caschetto o, men che mai!, lungo come le femmine…!! Come ci saremmo potuti difendere dai pidocchi?

Le nostre madri ci ispezionavano spesso e ci facevano pettinare col pettine fitto, previa una passatina di olio d’oliva, misto a petrolio, sulla cute…

I nostri pantaloni non erano “firmati”, ma “fermàti”… Fermati da bretelle (straccàli) o da qualche vecchia cinta. Qualche ragazzo li portava corti anche d’inverno, nonostante il freddo.

Ma torniamo al fuoco di Natale…

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Quando i ciocchi erano troppo pesanti, per trasportarli, li assicuravamo ad una corda, alla quale avevamo fissato una serie di bastoni equidistanti tra loro che fungevano da maniglie per altrettante coppie di ragazzi, che li avrebbero trascinati via come tanti cani da slitta!

In questo modo riuscivamo a trasportare, fin davanti alla chiesa, con il freddo e con il fango, anche dei tronchi abbastanza grandi, abbandonati fuori paese.

Quando finalmente arrivava il momento, la sera della vigilia di Natale, con l’aiuto di qualche adulto se ne faceva un grande mucchio, davanti la chiesa, e lo si accendeva.

Che riverente eccitazione, che soddisfazione nel riscaldarsi a quel fuoco!

Ci sentivamo coinvolti ed importanti al pari degli adulti. Noi in prima fila e loro dietro, con le braccia al disopra delle nostre spalle, tese verso le fiamme a mani spalancate…

Poi, prima di cena, si assisteva alla funzione religiosa serale.

Il Cenone, anche se abbastanza frugale, era sempre un grande avvenimento.
Ovviamente era a base di magro. In quei tempi era impensabile non lo fosse. Spaghetti aglio e olio oppure col sugo di tonno. Poi, per secondo, c’era quasi sempre l’anguilla marinata con contorno. E, infine, la frutta: un’arancia o un mandarino. E qualche ficora (fico secco).

Ma non fini va qui. Era vigilia, si, ma era comunque festa…
In ultimo dunque, dulcis in fundo …com’è proprio il caso di dire (!), cera un pezzo di nucciata, cioè una specie di torrone fatto in casa, a base di farina, frutta secca, zucchero, miele, …e non so che altro. Ricordo solo che era tanto buono….

Però, era ancora più buono, quando c’era (perché era una novità che non tutti si potevano permettere), era il pezzetto di torrone bianco, quello che si comprava al negozio. E già… tutto il resto era sempre e da sempre fatto in casa…

C’era, poi, la letterina di Natale, che l’insegnante ci aveva fatto scrivere sotto dettatura.
Con tante belle parole che non avremmo mai avuto il coraggio di dire ai nostri genitori direttamente. Non ci saremmo mai rivolti a loro in italiano, perché i sentimenti li sapevamo esprimere solo nella lingua materna, in dialetto!

C’erano anche le promesse. Che avremmo studiato e che saremmo stati più buoni. Semplici ed innocenti bugie, scritte con un po’ di inconsapevole retorica e (di questo, invece, eravamo consapevoli!) che ci avrebbero fatto rimediare un po’ di soldi! Soldi che ci avrebbero permesso di giocare a carte con gli amici, in attesa della nascita del Bambinello.

I giovani ed i ragazzi, normalmente, si riunivano in casa di altri amici, per giocare a tombola, a mazzetto, a sette e mezzo, a mercante in fiera…
Non in tutte le famiglie si giocava. Ma in tutte le donne recitavano il rosario completo.

All’approssimarsi della mezzanotte si stava con l’orecchio teso per cogliere il suono delle campane che annunciavano la messa di mezzanotte, alla quale non si poteva assolutamente mancare. Le assenze dalla messa erano sempre notate da parenti e amici. E non era una bella cosa…

L’atmosfera era magica. A quell’ora, in altre notti, si dormiva da un pezzo!
Fuori, quasi sempre, c'era la neve. Tanta neve.

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Babbo Natale, in tutto ciò, …non c’entrava niente!
Quel buffo personaggio, vecchio e grasso, vestito di rosso, non era stato ancora importato. Chi se lo immaginava quello strano nonno giocoso con la barba bianca? Non era ancora stato mai raffigurato nei nostri libri di lettura…

E poi, che senso avrebbero avuto delle renne scandinave, in un paesino come il nostro? Le nostre capre e le nostre mucche le avrebbero rimandate via a forza di cornate….

Con il tempo, il consumismo globale ce lo ha quasi imposto, relegando in un angolo il caro, poetico e semplice presepe. Quel presepe che, quando ero bambino, ad ogni Natale, realizzavo in un angolo della casa, con quel bel muschio rigonfio che abbondava nei nostri boschi.

Un presepe semplice e povero. I personaggi non erano tridimensionali. Non c’era disponibilità economica e, pur avendola, non c’era un negozio in paese dove eventualmente acquistarli. Me li costruivo da solo ritagliandoli dalle cartoline d’auguri natalizi. E li sistemavo lì, in quelle stradine fatte con la rena, tra collinette di muschio spruzzate di farina…

Avevamo il Bambinello, noi. Quello si. E poi c’era la Befana, che sarebbe arrivata tra qualche giorno, per riempire con qualche caramella, un torroncino, mandarini e fichi secchi, le nostre calze di cotone nero, con la soletta bianca, fatte con i ferri dalle nostre donne.

Aspettavamo con ansia la nostra cara e dolce vecchietta, che non era brutta come la rappresentano ora, ma dolce e premurosa, come le nostre nonne. Tinta di fuliggine, volava silenziosa di tetto in tetto, con il suo sacco pieno di cose buone, infilandosi magicamente nelle calde canne dei numerosi camini…

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Le campane che chiamavano i fedeli alla messa suonavano tre volte, ad un intervallo di una decina di minuti. L’ultima chiamata terminava con il suono prolungato della campana piccola. Si diceva che “accennava”, cioè che era ora di entrare in chiesa.

Allora ci si avviava verso la chiesa, alla fioca luce dell’illuminazione di allora.
Nelle strade semi buie, sotto un cielo super stellato, ci si incontrava, con altri amici paesani. Ci si riconosceva a distanza ravvicinata, all’ultimo momento, e ci si salutava chiamandosi per nome.

”Aoh, commare Marì! Bon Natale!”
”Compare Francì, Bon Natale! Non ti riconoscevo con questo buio. …Ha accennato?”
”Ancora no, ha sonato due volte, ma credo stia per accennare… Attenzione commà, senza correre… Qui bisogna camminare piano piano, con prudenza, ché con questa poca neve s’ha da stare atténti, se no andiamo a finire per terra…”
”Eeh…Quest’anno di neve n’ha fatta poca, però fa tanto freddo! E poi, stanotte, con questo cielo stellato le strade si sono gelate…”

Già, quell’anno aveva fatto poca neve, sera messo a tramontana e s’era gelato tutto. E il vento alzava il nevischio, che ti sbatteva addosso e ti spaccava le mani e la faccia…

Le donne anziane, col fazzolettone in testa, procedevano adagio, con cautela. Sotto i pesanti scialli tenevano tra le mani lo scaldino di terracotta, con dentro la brace, per scaldarsi.
La brace era sempre coperta di cenere, perché non si consumasse e potesse durare più a lungo.

Durante il percorso qualche giovanotto si avvicinava loro, con una sigaretta spenta in mano salutando:

”Ciao zia Nicoli’, mi faresti accendere dallo scaldino? I prosperi li tengo ma mi si sono inumiditi, e non s’accendono… Grazie Zia Nicoli’, Buon Natale!”
”Grazie bello de zii, Bon Natale pure a te. Madonna, come ti sei fatto grande… ma già fumi? Eeh… il fumo fa male alla saccoccia!”

Con un sorriso, acconsentivano di buon grado che avvicinassero il loro viso al loro scaldino. Consigliavano di non fumare, non tanto per la salute, perché allora non si conoscevano i danni procurati dal fumo, ma per non bruciare i soldi in quel modo! Che allora non ce ne erano abbastanza…

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Nella semi oscurità, ci si ritrovava di nuovo tutti davanti alla chiesa, a strofinare le mani verso il fuoco. I volti illuminati dalla fiamma, con gli occhi ed il naso strizzati per il calore e per il fumo, si sorridevano e si scambiavano frasi d’auguri. Ci si riscaldava anche di dietro, volgendo le spalle al falò.

Le donne, avvolte nei loro scialli, entravano direttamente in chiesa mentre molti uomini indugiavano, aspettando che il sagrestano suonasse a distesa quella campanella accanto alla porta della sagrestia. L’ultima chiamata…

All’ingresso della chiesa c’era sempre una scopa, come anche all’ingresso delle abitazioni, con la quale ci si puliva le scarpe dalla neve, per non portarsela dentro.

Quella grande chiesa nuova era terribilmente gelida, con quelle mattonelle in graniglia di cemento e con quella volta così alta… Mia madre se ne lamentava spesso. A quel tempo non c’era nessun sistema di riscaldamento oltre al camino. E il camino in chiesa non c'era...

La messa aveva carattere solenne, cioè, era cantata.
Angeluccio, il sagrestano, dopo aver acceso tutte le luci, anche quelle dei tre grandi lampadari che pendevano dall’alto dell’arco dell’abside, suonava a distesa e a lungo la campanella, con aria seria e quasi autoritaria, come si addiceva alla circostanza.

Quindi, come organista e cantore, andava a sedersi all’armonium, dietro l’altare, mentre Don Serafino, l’anziano sacerdote officiante, saliva sull’altare, accompagnato da uno o due ragazzi chierichetti.

Normalmente, alla messa solenne della domenica, quella delle undici, eseguiva la parte cantata da solo. Dopo essersi schiarita la gola con qualche sonoro colpo di tosse, iniziava il canto, accompagnato da una limitato giro di accordi di quell’armonium, al cui suono si univa il cigolio dei pedali.

A Natale però, come in tutte le festività di riguardo, c’era sempre qualche altro cantore che si univa di rinforzo, a formare un duetto od un trio.

La voce di testa e un po’ nasale di Angeluccio, mal si amalgamava con quella forte, gutturale ed un po’ sguaiata di Checchino il calzolaio, o con l’altra piatta e adenoidea di Franco. Per cui ognuna di esse sforava, distinguendosi perfettamente dalle altre!
CIò nonostante, la loro unione, con il riverbero dalla volta dell’abside, esaltava la solennità del Natale, e gratificava l’assemblea dei fedeli.

Si iniziava con il Kyrie. Poi il sacerdote intonava il Gloria, scoprendo quel Bambinello dal viso di porcellana, completamente avvolto, comprese le braccine, in fasce celesti. Alla maniera di come venivano vestiti i neonati di una volta…

Il coretto proseguiva, in una tonalità più o meno casuale, e comunque quasi sempre diversa da quella del sacerdote!

La melodia consisteva in una serie di brevi e veloci recitativi su una stessa nota, che anticipavano lente frasi cantate. Dello stesso stile erano il Credo, il Sanctus e l’Agnus Dei.

Finchè, a un certo punto, si passava alla tradizione popolare e veniva cantata “La pastorella”, che era un modo locale di chiamare “Tu scendi dalle stelle“. E, a quel punto, si univa al coro anche tutta la platea…

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Terminata la messa, la gente si ammassava all’uscita per scaldarsi nuovamente davanti al fuoco. Per lo più restavano gli uomini. A Chiacchierare e a fumare. Le donne preferivano andare direttamente a casa.

Se c’era abbastanza neve, le ragazze diventavano bersaglio delle palle di neve dei giovani per cui, timorose, indugiavano all’interno della chiesa.
In questi casi, il bravo Angeluccio doveva intervenire, talvolta, con aria pseudo autoritaria, intimando ai ragazzi di non infierire, ma facendogli l’occhietto come per dire ”Tirate, tirate!”

Qualcuno si accendeva la pipa o il sigaro o la sigaretta con un pezzetto di legno acceso dal falò. Fiammiferi ce n’erano pochi. Gli accendini, poi, erano una rarità…

Ma vuoi mettere il gusto di accendere direttamente dal fuoco? Era un’altra cosa!
Qualche vecchio prendeva direttamente con la mano un piccolo carbone acceso e, facendolo saltellare nella mano callosa, per non scottarsi, lo faceva ricadere sul fornello della sua pipa di terracotta, che aveva caricata con il tabacco di un mozzone di sigaro toscano, come faceva la maggior parte dei fumatori di pipa.

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Per più di tre giorni, quel fuoco continuava a bruciare, e noi ragazzi lo accudivamo soddisfatti, sperando che il suo calore potesse raggiungere, miracolosamente, il Bambinello esposto sull’altare, al freddo di quella gelida chiesa.

Bambinello, che restava esposto fino all’Epifania.

In quei giorni si facevano preghiere e devozioni. Quelle più frequenti erano gli strascini, che consistevano nel percorrere, una o più volte, in ginocchio, tutta la lunghezza della fredda navata centrale della chiesa, recitando il Credo ed altre preghiere. Fin sotto l’altare.

I genitori ci incoraggiavano spesso a fare tali devozioni: ”Bello di mamma, vatti a fa ‘n po’ di strascini al Bambinello!”

Ed io ci andavo. E correvo, sulle mie ginocchia, sorpassando qualche anziana devota che, col fazzolettone sulla testa, avanzava lentamente, tenendosi con una mano le lunghe e pesanti gonne (“wunnelle”), bisbigliando con profonda devozione le sue preghiere, in un latino approssimativo, storpiato ed a lei incomprensibile.

Sicura, comunque, che erano preghiere che il Bambinello avrebbe sentite, capite e gradite ugualmente...

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I racconti precedenti:
I miei primi sci
Polenta e panuntella. Due pietanze, due ceti

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Il racconto e le immagini di Gerardo sono pubblicati con il consenso della moglie. Le altre immagini sono tratte dal web e sono libere da Copyright.

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Commovente. La vera nostalgia riguarda tutto ciò che non hai mai provato 😏

Superb your creation lead me to read your previous works to...Will read all your works in lunch break but this is terrific. Nice writing and adjoining photos also great @marcodobrovich

Let me know what you think about them...!!
Thank you.

I think that writers like Gerardo are hidden gems.

Christmas for you guys line Diwali for all us Indians. great work read after new one. But felt touched.

Greqt sory again by Gerardo. Loved it so much.

Once again a great story.... Loved it

Il Natale non è più quello di una volta

Liked it so resteemed as a newbie writer found Gerardo as a great inspiration. Please post some english works too.

Thank you. I can find some stories of mine written in english on my profile. Look in the past...
My travel to Gabon... or through the Dolomites...

Of course I will read.

Just published a new one... :)

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