Soggetti della scrittura o soggetti alla scrittura?steemCreated with Sketch.

in #ita6 years ago (edited)

Questo post nasce dopo la lettura del bellissimo testo di @martaorabasta "Scriviamo, dunque siamo".

Il post in questione finisce con:

Ma al netto di tutto questo, la trance febbrile dello scrittore si spiega con una radice antropologica profonda che sta nella smania di volersi riconoscere e ritrovare attraverso un manufatto leggibile, un testo, una parola, un grido di aiuto.
Perchè, non si offenderà certo Descartes, "scriviamo, dunque siamo!"

Da questo finale io continuo.

Ma questo mio continuare, come accade spesso nel passaggio tra una visione a un'altra, probabilmente proporrà nuovi punti di vista.

Non migliori né peggiori, né più ricchi o più poveri, ma nuove città (più o meno invisibili) incontrate nel nostro viaggio.

Esiste uno studio molto interessante di Alfred Kallir sulla storia dell'alfabeto.

E come dice la quarta di copertina dell'edizione italiana (Segno e disegno. Psicogenesi dell'alfabeto) , si tratta di "una storia affascinante e ai confini dell'incredibile":

Si è sempre saputo, già dall'antichità, che le lettere dell'alfabeto greco e poi romano, tuttora in uso, derivavano dai segni di scrittura semitici, i quali erano a loro volta il frutto di una secolare stilizzazione di pittogrammi originari, cioè di immagini e disegni che solo in seguito divennero meri segni convenzionali. Ma nessuno, prima di Kallir, aveva effettivamente potuto ricostruire questa vicenda dalle prime immagini del paleolitico sino a noi, attraverso un confronto magistrale con tutti i sistemi di scrittura via via inventati dall'uomo.

Foto di mia proprietà

Alfred Kallir non è uno studioso accademico, e questa è la ricerca della sua vita. Cominciò ad interessarsi dell'alfabeto quando lavorava al controspionaggio militare britannico durante la seconda guerra mondiale, in qualità di decifratore eccezionalmente abile e scioglitore di enigmi.

Il lavoro di Kallir è archeologico: scavare nelle più profonde origini della cultura umana indagando quella pratica sapienziale che è la scrittura.

Il passato non è mai del tutto passato. Le memorie rimangono fattori attivi, permangono nella mente dell'uomo e della specie umana.
[Kallir, op.cit, p. 134]

La storia che Kallir individua nello studio dell'alfabeto è qualcosa di davvero affascinante:

Nella lettera A, apparentemente nient'altro che un segno convenzionale che indica la prima delle vocali, sono depositate, per chi sappia leggere, le tracce di una storia immensa, quasi il compedio della storia umana nella sua interezza, dall'uscita dallo stato ferino fino all'acquisizione della posizione eretta, all'addomesticamento del bue selvatico e allo stabilimento del rapporto di potere tra i sessi.
[Rocco Ronchi, La scrittura della verità. Per una genealogia della teoria, p. 65]

La lettera A rappresenta il disegno della testa di un bue via via trasformato dal processo di stilizzazione e poi, nel nostro alfabeto, rovesciato.

Ma torniamo alla nostra frase: Scriviamo, dunque siamo.

In che modo questa frase, al di là del gioco linguistico, di quello scherzo intelligente di metterlo a paragone con la famosissima frase di Descartes (Penso, dunque sono), in che modo questa frase può dirci qualcosa su di noi?

E se la scrittura non fosse semplicemente uno strumento tecnologico attraverso il quale l'uomo esprime le proprie idee?
Se fosse qualcosa di più di (di diverso da) questo?

Il filosofo Carlo Sini mette al centro delle proprie suggestioni proprio la pratica della scrittura.

In un suo libro (Il simbolo e l'uomo) Sini mette in dubbio l'idea del pensiero comune (ma anche scientifico) che vede l'uomo in questa accezione:

Mammifero caratterizzato dalla stazione eretta, dallo sviluppo straordinario del cervello, delle facoltà psichiche e dell'intelligenza, dall'uso esclusivo del linguaggio simbolico articolato e dalla conseguente capacità di fondare, trasmettere e modificare una cultura
[Il Sabatini Coletti, Dizionario della lingua italiana]

Sini, e non posso spiegarlo in questo post, visto che le sue argomentazioni sono il contenuto di tutto il suo libro, contesta questo fatto: non è l'uomo l'animale dotato di capacità simbolica, è il contrario, è la pratica simbolica che crea (determina, sviluppa, fa nascere) il concetto di uomo così come lo pensiamo oggi. Quest'uomo non è sempre esistito.

Altrove, Sini parla della pratica della scrittura come evento che determina la scoperta dell' "io" che può farci dire "io sono" (intendendo qualcosa di sensato).

In questo passo Sini si riferisce anche al saggio di Havelock (La musa impara a scrivere. Riflessioni sull'oralità e l'alfabetismo dall'antichità al giorno d'oggi):

Non c'è dubbio che l' "io" fu una scoperta socratica, un'invenzione del vocabolario socratico, rese "testuali" da Platone e dalla sua "strategia dell'anima" (che è la nascita stessa della filosofia). Tutto questo però mette di fronte a un risultato inquietante, per le verità dei nostri pregiudizi: "che il concetto dell'io e dell'anima, quali oggi concepiti, nacque in un dato momento storico e venne ispirato da un mutamento tecnologico per il quale il linguaggio e il pensiero fissati per iscritto e la persona parlante vennero separati l'una dagli altri, producendo una nuova messa a fuoco della personalità del parlante.
[Carlo Sini, Etica della scrittura, p. 32]

Questo passaggio tra la civiltà dell'oralità a quella della scrittura mi ricorda anche il passaggio culturale tra l'apollinneo e il dionisiaco narrato da Nietzsche.

Il pensiero dell'uomo dell'oralità diventa "oggetto fisico" in quello della scrittura, anzi è proprio l'oggettivazione del mondo che nasce con questo processo. E cos'è questa oggettivazione del mondo se non la pratica del nostro sapere? Volere quindi la conoscenza totale (onnicomprensiva) attraverso l'oggettivazione del mondo è come volere l'intera città dentro una mappa.

Soltanto con questo processo (nell'evento di questa pratica) è possibile dire "Io sono", ecco perché non è poi così scherzoso il dire "Scrivo, quindi sono".

Tutto questo però colpisce l'estrema convinzione, una "curiosa arroganza" direbbe Havelock, di pensare di essere noi i soggetti (individuali) "della" pratica, quando siamo solo soggetti "alla" pratica. Non padroni quindi, non creatori (non siamo Dio direbbe Nietzsche col suo "umano, troppo umano"), del nostro dire (e del nostro pensare).

E questo (sono solo io che lo penso?) è qualcosa di più bello che pensare di avere l'universo nella nostra testa o nei nostri scritti (in quanto universo conosciuto), che equivale a credere di essere i padroni dell'universo.

Sort:  

al netto dell'onore, trovo la tua proposta di riflessione molto articolata e interessante. Semplificando, l'essere l'identità un prodotto secondario dei simboli che la definiscono e la oggettivano è una teoria suggestiva. Quello che mi sembra di poter dire è che ci siano due punti di vista applicabili alla storia della civiltà (continuo ad essere estremamente rozza): quello meramente di cronaca che vede un progressivo affinarsi della produzione simbolica finalizzata alla crescente necessità di sedimentare un sistema di astrazioni che servissero a combattere la paura della morte, la paura che il sole non sorgesse più, ecc. L'altro punto di vista è quello filosofico, in ragione del quale è la produzione simbolica che dà vita a un'oggettivazione dell'identità umana, una sorta di "mirroring" di rispecchiamento in qualcosa di trascendente ed eterno, qualcosa che potesse sopravvivere alla breve esistena terrena di un essere umano. Grazie dell'opportunità di rimettere in moto le mie arrugginite memorie universitarie. Ottimo post

Grazie del commento!
Quei due punti vista che dici è uno solo secondo me.
Quando inizia la paura della morte? Quando inizia (e perché) l'uomo, diversamente agli altri animali, a seppellire i morti? Forse già c'entra qualcosa la pratica simbolica (chiaro, prima dell'utilizzo della scrittura alfabetica).

Faccio un esempio stupido (per cui anche inesatto, non perfetto):
Lo scienziato studia il cervello perché pensa che esista un organo con la capacità di utilizzare la funzione simbolica (questo organo e questa capacità sono date come oggetto di analisi).
Il filosofo pensa che quell'oggetto di analisi sia nato dallo sguardo e dalla pratica simbolica dello scienziato.
Ma questo non vuol dire che non c'è l'evento dell'uomo che pratica la funzione simbolica, questo vuol dire che quell'oggetto (quello dello scienziato) è una mappa del sapere che quell'uomo (l'uomo della nostra cultura, non l'uomo in generale) applica per stare al mondo (etica come modalità di stare al mondo).

In un commento di un altro post dico (in sintonia con alcuni filosofi contemporanei): non è corretto pensare alla mano come organo che afferra il mondo, come se questa funzione stia nella mano (come il pensiero starebbe nella testa), perché senza mondo afferrabile non esisterebbe alcuna mano che afferra. Non ha senso credere che esistano oggetti "da soli", gli oggetti esistono (trovano il loro senso) solo e sempre nelle relazioni che instaurano col (nel) mondo. Ma il guardare il mondo come se fosse fatto di oggetti è una utilissima mappa per muoverci (ma nulla di più).

Lo sguardo filosofico (di alcune correnti filosofiche quelle che mi convincono di più) è genealogico, quindi non contrapposto a quello che tu definisci "cronaca" (sguardo storico, genealogico appunto), perché la filosofia non può che praticare lo stesso strumento dello scienziato, perché anche lui è soggetto alla pratica di scrittura e di pensiero. Non si può cambiare la cultura come se fosse un abito.

Grazie del commento perché mi sto divertendo un sacco a riprendere argomenti che non toccavo da anni (anch'io arrugginito) 😉

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Molto complesso come argomento.
Credo che la scrittura non sia altro che un modo di sentirci immortali, non di esserlo ma di farci sentire cosi.
Pensiamo che mettendo nero su bianco un nostro pensiero, una nostra convinzione, una nostra morale qualcuno un giorno possa ricordarsi di noi attraverso le nostre parole.
In questo siamo senz'altro arroganti e presuntuosi. Ma perchè lo siamo?
Perchè in fondo ogni esperienza può essere di aiuto o ispirazione ad altre persone se ben raccontata, se ben umanizzata. Questo ci permette di passare dall'arroganza alla "solidarietà", a quel sentimento di essere d'aiuto a qualcuno o semplicemente a noi stessi. Una scrittura terapeutica direi.
Al giorno d'oggi scrivere qualcosa è legittimarsi tanto quanto lavorare o divertirsi. Abbiamo gli strumenti per condividere le nostre esperienze e lo facciamo. Ma se l'ultimo fine è solo quello di essere oggetto di condivisione allora siamo finiti, se l'ultimo fine è creare attorno a noi una rete di persone, competenze ed esperienze sulle quali costruire qualcosa di comunitario allora siamo sulla giusta strada e allora potremmo dire fermamente "scrivo, quindi sono".

E' un po' come nei giochi di ruolo: è la pratica della scrittura che inventa il concetto di "mortale" e di "immortale" e poi gioca nel prendersi il ruolo. Nulla di male, se si ha la consapevolezza di star giocando, altrimenti si prende troppo sul serio (chi lo fa) l'obbiettivo dell'immortalità. L'arroganza sta proprio nel prendere sul serio ciò che ci inventiamo, mi ricorda un bellissima scena di un film di De Sica che gioca a carte con un bambino, una scena lunghissima dove si vede De Sica che si arrabbia perché perde, fino a prendersela in modo feroce e violento col bambino.

D'accordissimo sul finale del tuo commento! 👍

Tema enorme, direi. Ho studiato e praticato l’epigrafia latina, ho partecipato a scavi archeologici e ad oggi insegno in un liceo, quindi l’argomento che hai trattato mi tocca molto da vicino. Da sempre le questioni filosofiche mi lasciano, in verità, piuttosto tiepida, quindi non mi addentro. Ma la domanda che pongo alla filosofia in merito all’oggettivazione del mondo tramite la scrittura è: che valore dobbiamo dare, quindi, alle culture orali, prima tra tutte quella omerica? Lo stesso Havelock definisce i due poemi “enciclopedia tribale”, a sottolineare l’enorme importanza culturale che essi hanno sempre avuto, dopo che nel VI sec. a.C. vennnero fissati per iscritto, ma soprattutto prima, in un mondo che della scrittura faceva a meno per raccontare se stesso.

Grazie per il commento @pataxis

La filosofia (non tutta la filosofia naturalmente, diciamo quella che mi convince) è lo sguardo che dà maggior valore possibile alla cultura orale, perché consapevole del fatto che ogni giudizio (compresa l'analisi scientifica) viene "condizionato" da ciò che è l'uomo che pratica la scrittura.

Ma è sbagliato anche dire "condizionato", perché non può proprio essere non condizionato, perché il giudizio (compresa l'analisi scientifica) non è altro che questo condizionamento (posizione etica quindi, uno stare al mondo, non "lo" stare al modo). Cioè, se non fosse condizionato non sarebbe umano, quindi...

Quando Nietzsche parla della morte di Dio, parla di questo: l'uomo (l!a cultura apollinea, che guarda caso è quella che sviluppa la pratica della scrittura alfabetica) uccide Dio facendo nascere il punto di vista "dall'alto" lo sguardo dello scienziato che si fa onore dicendo che il suo sguardo non si confonde con l'oggetto analizzato (altrimenti sarebbe un dogma, cioè qualcosa di non scientifico). Questo sguardo dall'alto che guarda il mondo è dice: "quella è la terra, quella è la luna, quello è l'uomo (ecc.) nasce in un preciso periodo storico (diciamo in modo anche un po' superficiale con la filosofia classica greca e poi si sviluppa nella mentalità scientifica già in Aristotele). Lo sguardo dall'alto è lo sguardo al posto di Dio (ecco l'uccisione del divino della cultura apollinea rispetto alla cultura dionisiaca), Ora la critica nietzschiana a questo gesto (per cui lui parla addirittura di inizio della decadenza dove noi parliamo di inizio della civiltà) non sta propriamente dall'aver ucciso Dio, ma di non essere all'altezza di quel gesto. Nietzsche non accusa l'uomo di essere umano ma di essersi messo al posto di Dio (senza meritarlo).

Ora, secondo me (e credo anche secondo la filosofia di Sini, ma parlo per me... non vorrei che adesso interviene Carlo Sini a dire: senti caro, non ci hai capito niente della mia filosofia, per favore non citarmi attribuendomi cose che non capisci) la pratica della scrittura c'entra molto in questo passaggio.

E tornando alla tua domanda: quando guardiamo la cultura dell'oralità, siamo noi della cultura della scrittura che guardiamo, con i nostri strumenti di sapere (compresa la scienza), quel che è veramente la cultura dell'oralità non ci è dato di saperlo se non a partire dal nostro sguardo. Non c'è altro modo perché la cultura dell'oralità vive (per noi) solo nella relazione col nostro sguardo. Quindi non sappiamo ciò che è la cultura dell'oralità (perché non c'è, letteralmente, cultura dell'oralità fuori dal nostro sguardo).

Ma qualcosa di quella cultura si rivela a noi, se solo impariamo a rendere il nostro sguardo meno presuntuoso, vale a dire se rinunciamo a credere che la cultura dell'oralità sia solo un passaggio (una tappa di un percorso lineare) dello sviluppo della conoscenza umana. Cioè smettiamo di credere che la cultura dell'oralità sia semplicemente la cultura della scrittura senza la scrittura.

L’oralità infatti non è la non-scrittura, perché non ha bisogno di altro che di se stessa per raccontare i suoi oggetti. L’antropologia ha dato un contributo enorme anche agli studi sul mondo antico, proprio usando il confronto con le civiltà primitive attuali. Chi non ha legge scritta, as esempio, si basa sul concetto di “vergogna” nei rapporti col gruppo sociale di riferimento. Vivevano benissimo anche senza alfabetagamma 😉

I contenuti che presenti anedo, per me non sono semplici. Eppure hai la capacità e, non di meno, la pazienza di esprimerli in maniera comprensibile e di rispiegarli.
Da una parte è evidente la tua cultura, che non supera però la passione che muove verso altri approfondimenti.
Dall'altra (mi prendo un po' di confidenza) sembri un bambino che ha già maturato l'idea di trovarsi in un mondo così vasto che non potrà mai abbracciare nella sua interezza.
Tanto più bello il primo aspetto quanto più profonda diventa la seconda percezione.

Nella prima parte Mi hai ricordato gli studi di lingue orientali. E anche quando citi Sini e ricordi che "non è l'uomo l'animale dotato di capacità simbolica, è il contrario, è la capacità simbolica che crea.. il concetto di uomo...".
Rammento che nella storia degli ideogrammi cinesi si racconta che sono stati questi, i simboli, che sono comparsi agli indovini fra le incrinature delle ossa gettate nel fuoco, presagendo così un destino.

Credere un'altra volta in questa immagine millenaria, dopo il tuo articolo, ne rinnova il fascino esotico quanto più ne fa comprendere quello intellettuale.

Ti vorrei chiedere però questo: diventa sottile (per me difficile da capire a pieno) quando dici nel post precedente:

siamo sicuri che non stiamo affidando il senso del nostro fare allo strumento?

mente in questo dici riferendoti all'atto dello scrivere

siamo solo soggetti alla pratica. Non padroni, non creatori

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Bel post! Bello anche la fusione di due post e l'evoluzione

Gran bella riflessione (e interessanti anche i commenti...)!
Qua non basta risponderti: non ce la faccio, non riesco a sintetizzare. Mi vengono troppe cose da dire e avrei bisogno di interloquire piuttosto che dissertare...
Bisogna proprio che ci incontriamo: facciamo una chiamata, vediamo chi risponde, ci chiudiamo in un casale in Toscana per un fine settimana e si mangia, si beve e si chiacchiera a volontà!
Grande @anedo!! ...e grandi @martaorabasta, @serialfiller, @pataxis. E pure @themadicine che, come me, si è limitato a commentare il suo gradimento ma, con questo segnale, ci ha confermato che ...è dei nostri!

Spero di rispondere approfonditamente domani. Per ora mi complimento e ti saluto dal concerto di roger waters

Buon divertimento! 🎵

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