Infanticidio, una pesante eredità biologica
Capita spesso, troppo spesso, di sintonizzare la propria TV su un telegiornale o di scorrere le news sul proprio smartphone e di imbattersi in notizie di madri o padri che uccidono i propri figli o i figli del proprio compagno.
Solitamente, in modo per altro più che legittimo, siamo portati a bollare immediatamente fatti come questo come sintomi di grande cattiveria, di un qualche problema psichico e di situazioni di pesante disagio.
Per quanto nessuno voglia negare che questi possano essere tutti elementi propedeutici al compiere un’azione così orribile, ridurre tutto a questo potrebbe essere un approccio superficiale.
Come ci insegna la biologia, infatti, molti degli atteggiamenti che manifestiamo ogni giorno hanno almeno due significati: uno psicologico-sociale, legato ai condizionamenti (positivi e negativi) della nostra società, e uno puramente biologico, legati alla nostra natura fondamentalmente animale.
L’infanticidio in natura
L’infanticidio appartiene, in natura, a numerose specie animali, che lo praticano con modalità e significati biologici diversi tra loro. Uno degli esempi più noti è quello dei leoni: quando un nuovo maschio entra nel branco e prende il comando solitamente uccide i cuccioli presenti. Il vantaggio biologico di questo atto è fondamentalmente quello di rendere nuovamente disponibili le femmine che altrimenti sarebbero impegnate nella cura del proprio cucciolo. Il nuovo maschio, quindi, si crea la possibilità di accedere velocemente alla riproduzione.

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Se da un punto di vista puramente biologico questo modo di agire risulta comprensibile, diventa più complicato capire perché una femmina decida invece di uccidere (o abbandonare il proprio piccolo), come talvolta accade nei primati. Il maschio di leone, infatti, uccide un cucciolo non suo, e non ha una quindi nessun tipo di perdita; ma una madre perché dovrebbe farlo? Anche in questo caso la spiegazione non si discosta troppo dalla precedente: se una femmina si rende conto di non poter portare a termine con successo lo svezzamento di un cucciolo, o di poterlo fare solo mettendo a rischio gli altri piccoli, può decidere di uccidere il proprio figlio.

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In entrambi i casi il vantaggio è misurabile in termine di fitness (o successo riproduttivo). Il leone potrà infatti riprodursi e diffondere il proprio patrimonio genetico, il primate, invece, potrà preservare le proprie forze per allevare altri piccoli con più probabilità di successo. Per comprendere meglio questo ultimo punto potremmo fare l’esempio di una femmina che durante la propria vita attraversi cinque stagioni riproduttive: se il primo figlio dovesse mai trovarsi in pericolo alla madre potrebbe non convenire rischiare la propria vita per salvarlo, perché per salvarne uno perderebbe la possibilità di averne altri quattro.
Attenzione però! Non c’è una vera e propria consapevolezza in questa azione! Semplicemente, un eventuale gene che induca l’egoismo della madre si diffonderà più facilmente di uno che induca l’altruismo: la madre egoista, infatti, perderà il primo figlio ma ne avrà altri quattro; la madre altruista magari salverà il primo figlio, ma perderà la possibilità di averne altri. Il gene egoista, quindi, si diffonderà quattro volte di più!
La grandezza della Natura
L’infanticidio è presente soprattutto nei mammiferi e negli uccelli, proprio perché nelle specie appartenenti a questi gruppi le cure parentali sono lunghe ed elaborate. L’intensità delle cure parentali è fondamentale per garantire il completo sviluppo di un animale “superiore”: un’infanzia lunga, infatti, è garanzia di completo e significativo sviluppo cerebrale. La grande durata delle cure, però, è proprio l’elemento che talvolta stimola l’infanticidio.
Ovviamente la natura non è stata a guardare mentre questo carattere veniva selezionato. Sia le femmine che i maschi hanno iniziato, col tempo, a mettere in atto strategie atte a garantire un certo tasso di evitamento dell’infanticidio per la propria prole.
La monogamia, più diffusa in natura di quanto si pensi, rappresenta proprio una di queste strategie. Essa infatti ha due implicazioni importanti: la femmina si lega permanentemente ad un maschio, che quindi potrà accedere alla riproduzione senza bisogno di uccidere i cuccioli di altre femmine. Inoltre, il maschio avrà tutto l’interesse nel partecipare alle cure parentali perché sarà sicuro di crescere la sua prole, e questo allevierà il lavoro della femmina, che sarà meno incline all’infanticidio.

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Effettivamente il maggior numero di casi di infanticidio viene riscontrato proprio in specie promiscue, come i leoni, i primati e… Proprio l’uomo! Sì, l’uomo è una specie solo socialmente monogama ma, per sua natura, sarebbe incline ad avere rapporti con più di un partner (e in molte aree la promiscuità è tutt’ora considerata normale).
Le specie davvero monogame, invece, come moltissimi uccelli mostrano tassi quasi nulli di infanticidio.
Ma noi non siamo scimmie
No, è vero, noi non siamo scimmie. Abbiamo una consapevolezza e una morale probabilmente più alta degli altri animali, ma non possiamo comunque negare che le nostre azioni siano in parte guidate dalla biologia.
La verità è che le nostre vite sono impregnate di condizionamenti sociali, e quasi sempre le regole morali che ci siamo dati prevalgono sugli istinti. Quando però, per diversi motivi, i nostri freni vengono a mancare ecco che la biologia entra prepotentemente nel quotidiano, causando anche episodi di questo tipo.
È sorprendente osservare come i dati mostrino delle somiglianze con quanto accade negli animali: in più del 90% dei casi, quando l’infanticida è il maschio, si tratta di un genitore non biologico (un padre adottivo o un nuovo compagno della madre subentrato al vero padre), come accade nei leoni. Quando invece l’infanticida è la femmina, come nell'esempio dei primati, l’atto avviene a causa della convinzione di non poter svolgere adeguatamente il compito di madre, dinamica simile a quella sopra riportata.

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È chiaro che nella nostra società un’azione del genere non porta a chi la compie alcun vantaggio, e anzi, probabilmente conduce l’individuo a un lungo periodo lontano dalla società stessa.
L’uomo per come lo conosciamo, però, è un animale relativamente giovane e in continua evoluzione. Questa dinamica, quindi, non ha ancora avuto il tempo di essere selezionata negativamente. A ben pensarci, non è passato così tanto tempo da quando era socialmente accettabile uccidere un figlio non perfetto. Il gene che induce l’egoismo nel genitore potrebbe allora essere ancora presente in noi, sepolto da tutta la nostra morale, ma pronto a riprendersi il suo posto quando abbassiamo la guardia.
Conclusioni
Quanto detto non deve in alcun modo suonare come una giustificazione nei confronti di chi compie atti di questo tipo. La condanna è ferma e senza appello. Ma comprendere il perché di fatti che ci appaiono inspiegabili può essere di fondamentale importanza per arginarli.
Altrettanto importante è cercare di non dimenticarsi mai di quella “componente animale” che risiede in ognuno di noi. Ascoltarla, comprenderla e, talvolta, assecondarla può essere il modo per evitare che questa scalci e si dimeni fino ad esplodere causando danni irreparabili. Abbiamo le nostre regole, la nostra morale, ma abbiamo anche i nostri istinti, che non dobbiamo aver paura di riconoscere.
Bibliografia
- Christopher Opie, Quentin D. Atkinson, Robin I. M. Dunbar and Susanne Shultz (2013). “Male infanticide leads to social monogamy in primates”.
https://doi.org/10.1073/pnas.1307903110 - Sarah Blaffer Hrdy (1979). “Infanticide among animals: A review, classification, and examination of the implications for the reproductive strategies of females”.
https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/0162309579900049?via%3Dihub - Glenn Hausfater (1984). “Infanticide: Comparative and Evolutionary Perspectives”.
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https://doi.org/10.1086/284097
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Hai fatto veramente und bell lavoro,non posso dire più c:
Bell'articolo! Grazie come sempre per averlo condiviso!