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in #ita6 years ago

Stivali verdi, o per alcuni suonerà più famigliare in inglese, Green boots, è la storia di un alpinista che vestiva degli scarponi verde vermiglio, deceduto nel 1996 tra il primo e il secondo dei three steps che portano alla cima del Monte Everest.

L'identità di Green boots non è del tutto certa, ma più o meno la si attribuisce a quella dell'indiano Tsewang Paljor che faceva parte di una scriteriata quanto sfortunata spedizione a carico della Polizia indiana. Infatti con l'intento di essere i primi indiani a raggiungere la vetta dal lato est, la spedizione vedrà la morte dell'intera spedizione, ad eccezione del comandante che era fermo al Campo base.

mount-everest-276995_1280.jpg immagine cc0 creative commons

L'attribuzione di Palijor a Green boots è dovuta alla singolarità che nei successivi 20 anni ne ha decretato il suo corpo. Infatti è diventato letteralmente un landmark, ovvero è entrato nelle indicazioni per determinare la posizione degli scalatori. Anche perché per moltissimi anni gli stessi dovevano letteralmente scavalcarlo, fino a quando una spedizione, probabilmente francese lo ha leggermente spostato in quella che viene ancora oggi definita "Green boots cave". Una sorta di leggero rientro della roccia che sembra disegnare un piccolo riparo.

La difficoltà di scalata del monte Everest non è dettata dal livello tecnico, infatti monti molto più bassi sono decisamente più difficili, ma l'altitudine e la rarefazione d'ossigeno sono la causa di così tanti decessi. Gli eventi che portano al decesso sono parecchi, uno di questi è quello di allucinazioni o perdita dell'intelletto dovuta a bassa irrorazione dell'ossigeno nel sangue. Green boots infatti era adagiato sul terreno in posizione fetale, come a fare un pisolino. E probabilmente è quello che ha fatto, credendo di essere a casa o chissà dove, finendo per spirare, quasi sicuramente per assideramento.

Ci sono una serie di casi per chi è stato fortunato da tornare indietro, che ci raccontano queste esperienze. Nel 2008 Jeremy Windsor in ascesa solitaria racconta come ad un certo punto a quota 8200 incontra un collega in mezzo al ghiaccio e vento sferzante. "Hello, my name is Jimmy" e decidono di proseguire insieme unendo le forze. Nelle soste si aiutano spronandosi vicendevolmente per oltre 10 ore. "hey amico, è meglio se cambi la tua bombola di ossigeno". Ad un certo punto Jimmy guarda Jeremy che sorridente lo saluta "cheerio!" svanendo nel nulla davanti ai suoi occhi. Jeremy racconta come ricorda distintamente le parole di Jimmy, del rumore dei suoi ramponi sul ghiaccio, del suono del respiratore e la maschera d'ossigeno che si appannava per lo sforzo. Persino il suo peso e lo strattonare della corda che li legava assieme. Niente di tutto questo era reale, si trattava della "sindrome del terzo uomo".

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immagine cc0 creative commons

Nel 2015 il Nepal viene colpito da un terremoto e le escursioni si fermano fino al 2016. Le prime spedizioni registrano che Green boots non è più li e nemmeno moltissimi altri corpi, oltre 200, tra i quali Mallory e Irvine periti nel 1924, molti dei quali visibili in particolare modo nella fase di discesa. Tanto da dare il nomignolo di "raimbow valley" cioè valle arcobaleno, dovuta al fatto che i corpi degli scalatori spiccavano sulla neve con i variegati colori degli indumenti tecnici. A quanto pare l'esercito cinese ha fatto opera di "pulizia" spostando i troppi corpi che oramai decretano l'Everest come il più grande cimitero a cielo aperto. Per questioni meramente pratiche e tecniche recuperare gli sfortunati scalatori è una impresa praticamente impossibile.

Gli elicotteri riescono a raggiungere con rischi solo il campo 2 a circa 6400 metri di altezza. Oltre si deve andare di persona, e con il concreto rischio di morire perché l'impegno fisico del recupero di un corpo è una impresa titanica. Quindi rimangono li, come Green boots, congelati come se il tempo per loro si fosse fermato al momento fatale. Infatti le temperature sotto-zero costanti preservano i corpi.

Un altro esempio è quello di "Sleeping Beauty", ovvero Francys Arsentiev deceduta nel 1998. Uno dei compagni di spedizione che tenterà inutilmente di salvarla fino all'ultimo rimane scioccato quando diversi anni dopo la ritrova esattamente dove e come l'aveva lasciata quel tragico giorno. Decide quindi diverso tempo dopo, nel 2007, di organizzare un team con il solo scopo di spostarla affinché non diventi un Landmark.

L'intervento dell'esercito cinese può sembrare brutale, molti dei corpi si presume siano stati lasciati cadere nei crepacci. Dal punto di vista occidentale sembra una assurdità, invece è l'unico modo di dare loro dignità ed eterno riposo. Nessuno degli scalatori si sarebbe interessato a loro, non per cinismo, ma per mera sopravvivenza. Green boots lo dimostra, per 20 anni ha vegliato lo stretto sentierino dei tre passi, a me piace pensare come una figura mitologica degli antichi racconti.

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Racconto molto suggestivo, che sinceramente non conoscevo minimamente, grazie di averlo condiviso con noi, caro @tosolini

Ma questa storia è assurda! A leggere il titolo - da perfetta ignorante in materia - pensavo a una bella storia tipo Heidi in giro per le montagne...sono rimasta allibita, ma in effetti è normale, tanta gente cerca di raggiungere quella cima ed arrivarci non è mica da tutti. Ho appena dato un'occhiata rapida alla lista dei caduti tentando la scalata, è un numero spropositato di gente!
Deve essere davvero macabro.

Un articolo estremamente interessante, grazie di averlo condiviso. A volte si guarda solamente al lato poetico della cosa, certo, ma è una triste verità e quei corpi disseminati fanno da monito.

Involontariamente sono partito un po' scanzonato. Ad ogni modo il concetto di macabro o disturbante varia, anche per la stessa persona come me o te, dal punto di vista geografico. Cioè mi spiego, dalle pendici del monte in qua sicuramente è macabro, già al campo 2 le cose cambiano in modo radicale, più sopra i valori occidentali diventano molto più che sfocati. Solo riuscire a respirare è uno sforzo fisico non indifferente, moltissima gente super atletica ha avuto problemi, alla fine penso che guardare quei corpi il pensiero è "devo sovpravvivere" e difficilmente trovano spazio altre emozioni. Quelle semmai tornano una volta a casa con la memoria. Non a caso ci sono state parecchie polemiche su molti casi, di gente ancora viva che si è vista passare un sacco di scalatori che non ha fatto nulla. Li vige una regola, se puoi camminare forse puoi essere aiutato, viceversa sei morto anche se respiri e parli. Vista dal mondo occidentale pare assurdo, è che oltre lo sforzo titanico di cui parlo c'è un fattore temporale, la finestra di tempo che serve per andare e tornare è limitata, poi le temperature diventano impossibili. Quindi chi aiuta se valuta che non riesce a tornare indietro in tempo pensa a salvare se stesso. Chiaramente ci sono delle deroghe e degli atti di eroismo. La stessa Francys che cito, il marito che era con lei appena si accorge di averla persa nella tormenta, torna indietro gli passa davanti senza però vederla e perde la vita in un crepaccio poco distante.

La discussione sul monito, ovvero perché lo si fa, non ha una risposta. Io stesso da escursionista se potessi, chiaramente con le assicurazioni mediche di poter sostenere fisicamente una cosa simile, ci proverei. E non sono uno che da un valore alla cima, cioè per me è la scalata il vero valore, non la meta. Ad ogni modo non sono pazzo, il mio faro è Ed Viesturs che ha prodotto la frase più bella che un escursionista dovrebbe sentire "raggiungere la cima è facoltativo, tornare indietro è obbligatorio". E pure sulle mie montagnette (che i suoi 100 decessi all'anno le fanno) più di una volta arrivato a due passi dalla meta mi sono girato e tornato indietro, perché ho valutato che avrei rischiato, magari nemmeno troppo, ma un filino in più di quello che sono gli standard assoluti di sicurezza. La montagna non si muove, ci si può riprovare un altra volta.

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