Come diventare un musicista di successo (CDUMDS). Capitolo 3

in #ita7 years ago (edited)

“Ma sei bravissimo!”.
Già, sapevo come ottenere il mio risultato, anche perché, trovandomi sotto costrizione, volevo che la tortura finisse il prima possibile.

Il mio amato papino, aveva un debole per la musica, in particolare per i fisarmonicisti, lo abbiamo capito. Grazie/a causa sua, io e i miei fratelli abbiamo studiato musica, questo lo abbiamo detto. E lui, da uno a dieci, era orgoglioso mille per il risultato ottenuto. Questo orgoglio veniva messo in piazza ogni qualvolta un ospite venisse a trovarci.
A un certo punto della serata, rivolto a uno dei due fratelli – o anche a entrambi, come gli girava – pronunciava l’immancabile frase:
- “vai a prendere la fisarmonica, fagli sentire quanto sei bravo a suonare”. -

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[immagine tratta da pixabay]

Massimo, poverino, viveva quel momento con uno sconforto e un’angoscia da fare tenerezza. Anche lui non aveva mai amato particolarmente studiare musica, come non aveva amato particolarmente studiare in generale. Era un tipo molto più pratico, e quando mio padre gli diceva:
-“fai sentire quanto sei bravo”-
ce la metteva tutta, ma non era esattamente gradevole sentirlo, ecco.
Si dilettava in qualche semplice canzoncina arcaica, tipo “Rosamunda” che non sto qui a spiegare cosa sia.
Fabio, seppur palesemente più bravo di Massimo, nemmeno amava quella richiesta. Questa esibizione dei pezzi pregiati che piaceva tanto a mio padre, lo metteva a disagio, ma accettava più di buon grado, anche perché tra tutti era quello più incuriosito dal mondo musicale, l’unico che quando studiava lo faceva per imparare sul serio e non solo per dovere, perciò il rendimento era sicuramente più fruttuoso.
La tortura, come amo definirla, era toccata spesse volte anche a me.
Come i miei fratelli, anche io venivo invitato a “far sentire come sapevo suonare”. La mia fortuna, utile in un buon novanta per cento dei casi, era che il mio strumento non poteva essere trasportato. Io non potevo “andare a prendere la tastiera, per far sentire quanto ero bravo”. Se lo volevano sentire, gli ospiti avrebbero dovuto recarsi in processione nella stanza della musica, dove io avrei fatto Click e avrei messo in moto tutti i macchinari.
E' doveroso quindi fare una precisazione.
La stanza che la mia famiglia ha eletto a punto di riferimento per svolgere la quasi totalità delle proprie attività, è una cucina separata dalla casa vera e propria.
Progettata per essere una specie di rustico, col caminetto e la dispensa alle spalle, aveva acquistato punti e diventata a tutti gli effetti l'unica stanza utilizzata, vista la facilità con cui veniva scaldata d’inverno, ma anche la praticità della dispensa a portata di mano.
La cruda verità è che stando lì, secondo mia madre, la casa non si sarebbe sporcata/rovinata/crollata.
D’estate stavamo freschi e stretti, d’inverno stavamo caldi e stretti. Per andare a dormire si usciva, si attraversava il cortile, un pezzettino del vialetto, e si entrava nel portone principale della casa vera e propria.
L'escursione termica, in inverno, era identica a quella tra Zanzibar e Toronto, condensata in molte meno ore di jet-lag. Usciti dalla cucina, ti si congelava l'anima all'istante, la quale restava li ad aspettarti che tornassi l'indomani mattina.
E' ancora così.
Arrivati nella casa vera e propria, le cose non cambiano di molto. La temperatura esterna è quella interna differiscono solo di qualche centesimo di Celsius che i muri, seppur di buona fattura, fanno fatica a contrastare.
Perchè, se viviamo nella cucina rustica, che senso ha tenere accesi i termosifoni in tutta una casa dove andiamo solo a dormire?
Stanza della musica (sala da pranzo), cucina, salotto e bagno al piano terra; tre camere da letto e bagno, al piano superiore. Fredde, gelide. Da settembre a maggio.
Questa caratteristica, d’inverno, giocava a mio favore. A nessuno sarebbe passato in mente di fare il tragitto al freddo fino alla stanza della musica, solo per sentirmi suonare.
D’estate, invece, spesso le persone assecondavano volentieri il volere di mio padre.
Andavamo tutti, mi sedevo, Click, mani in posizione, e senza aprire nemmeno il libro eseguivo un brano a piacere tratto dal “giardino fiorito”.
In pochi minuti, sbrigavo la pratica, facevo il fenomeno, mio padre si gonfiava di orgoglio e gli ospiti, sempre, SEMPRE:
-“Ma sei bravissimo, la conosci ….?”-
e tiravano fuori un titolo che spaziava dal liscio anni 30, all’ultimo successo di Sanremo. Dipendeva dalla cultura musicale dell’ospite in questione.
Bastava far sentire quattro note messe in croce, e subito si passava all’esame successivo: il Juke Box.

Le prime volte che mi fecero delle richieste mi sentii incapace. Io non sapevo suonare altro, potevo fargli sentire un altro esercizio di un altro libro, ma non facevo piano bar. Avevo fatto del mio meglio, ma non ero in grado di soddisfare le richieste del pubblico.
Mi affidai perciò a una risposta che funzionava sempre, vista la domanda sempre uguale, e non mi faceva sentire inadeguato.
“Mi dispiace, ma io studio pianoforte e queste cose non le studiamo”. Tiè.

Fino a verso la fine delle elementari, egocentrismo e voglia di mettermi in mostra, non mi appartenevano.
La tortura era costringermi a dimostrare di saper fare qualcosa, che non mi piaceva, che facevo controvoglia. Con queste basi, il mio approccio era insicuro e temevo di evidenziare che non fossi poi così bravo come
mi stavano descrivendo. Non mi sentivo a mio agio in solitudine, di fronte alla Ds-8, figuriamoci in pubblico.

Ma ogni modo, prendendo l'anno 1991/92, per quanto avessi studiato poco e male, era stato come gettare dei semi nel vento, e da qualche parte qualcosa aveva attecchito. Volendo o nolendo erano circa cinque anni che prendevo lezioni di pianoforte/tastiera, il maestro Graziano in tutto quel tempo aveva alternato lunghi periodi di regolarità, a brevi periodi di black-out, soprattutto nel periodo estivo quando aveva le serate con la sua fisorchestra. Tutto sommato, comunque, il mio percorso era stato continuativo, le mie mani avevano appreso qualcosa, e stavo per concludere il primo ciclo importante della mia vita.
Stavo per iniziare una scuola da grande, e suonavo la tastiera con disinvoltura, tanto da potermi permettere di saltare qualche giorno di studio, perché sarei riuscito ugualmente a far ascoltare al maestro Graziano gli esercizi che mi aveva assegnato. E i miei ripassi last-minute, davano sempre la spinta finale al mio processo di apprendimento.

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Oddio, quanto ho odiato quando da piccolini mi dicevano: fai vedere...
C'era cosa più antipatica e imbarazzante?? +__+

Probabilmente è un allenamento alle future figure di m... Che la vita ci riserverà! I genitori già lo sanno e ci preparano. Chi lo sa....

Giuuustoooo 😂😂😂👍

Mamma mia, mi ricordo pure io di quando ero bambina e venivo piazzata regolarmente al centro della stanza per suonare. La disgrazia di suonare il violino è che te lo porti appreso con facilità ed io ero obbligata da mio padre ad averlo sempre a disposizione, che incubo. Compleanni, rimpatriate, cene tra amici, colleghi e parenti, a casa e fuori, viaggiavo sempre con lo strumento a portata di mano e sapevo che quel momento sarebbe arrivato ogni volta, fatidico e tremendo: "Francesca, vai a prendere il violino, suonaci qualcosa". Ero pure costretta a preparare una specie di concertino che non sembrasse pianificato in anticipo, estemporaneo: avevo una scaletta di pezzi sempre pronta che conoscevo a memoria. L'ansia.
A un certo punto, invece dei pezzi da concertino, ho cominciato a suonare gli esercizi per i cambi di posizione e le doppie corde, tiè!
Non ha funzionato.

Per terminare questo supplizio ho smesso proprio di suonare. Non solo per questo, naturalmente, ma è stata una liberazione!

Mi hai fatto pensare a quando ero adolescente!

ma quante cose in comune...e io pensavo di essere l'unico torturato dai miei genitori.
Cmq...viste queste similitudini...continua a seguire la storia se ti va, vedrai per me come è andata!!!

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