Un altro passo verso la clonazione umana?

in #ita7 years ago (edited)

Non più di un mese fa, il web è stato letteralmente inondato di fotografie che ritraevano due cuccioli di Macaca fascicularis nella loro naturalezza mentre si abbracciavano intimoriti, mentre giocavano con dei pupazzi o si avvicinavano alla telecamera che li stava riprendendo con una curiosità tipica di qualsiasi bambino. Quella telecamera non stava riprendendo due cuccioli di macachi qualunque, ma il risultato della prima clonazione di primati non-umani della storia. Questo, se non altro, è quanto hanno riportato le più importanti testate giornalistiche. Ma è davvero così? In realtà, c’è almeno un precedente: infatti, nel 1999 l’Oregon National Primate Research Centre era riuscito a dare vita a Tetra, una femmina di Macaca mulatta figlia anch’essa della clonazione ma, a conti fatti, meno famosa dei due nuovi nati. Ma allora, cosa c’è di così speciale in Zhong Zhong e Hua Hua da far passare la povera Tetra quasi del tutto inosservata vent'anni fa, destinandola all'eclissi? In realtà tutto sta nel metodo, ma per rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro.

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Immagine CC0 Creative Commons - Fonte


L’uomo non ha inventato nulla

La clonazione è sempre esistita. Per quanto possa destare interesse la riuscita di un esperimento di clonazione, la più grande specialista di esperimenti di questo tipo è la natura stessa, che mette in atto meccanismi di clonazione molto più spesso di quanto si possa pensare. Infatti, la definizione scientifica di “clone” fa riferimento a un individuo geneticamente uguale a un altro, e questo implica l'inclusione di un grande numero di casi che normalmente non consideremmo tali nel leggere una notizia sul giornale.
Basti pensare a tutti quegli organismi che si riproducono per semplice divisione, senza rimescolamento del materiale genetico. Queste colonie sono a tutti gli effetti di tipo clonale, così come può rientrare nella definizione di clone qualunque parte di una pianta che si stacchi dalla pianta madre e metta le radici separatamente. Casi molto particolari di clonazione si possono trovare anche a livello dei vertebrati parlando di poliembrionia, per esempio. È il caso dell’armadillo dalle nove fasce (Dasypus novemcinctus) in cui la gestazione comincia normalmente con un unico zigote, ma questo successivamente si divide dando vita a quattro embrioni (o multipli di quattro) geneticamente identici tra loro (e, come di norma, geneticamente differenti dalla madre). Il processo appena descritto, in realtà, per quanto possa apparire bizzarro, risulta del tutto normale se si pensa che è lo stesso che nell’uomo dà origine ai gemelli omozigoti.


Primi studi sulla clonazione

A questo punto, parte dell’entusiasmo nei confronti di questi esperimenti potrebbe risiedere nel fatto che, come accade sempre più frequentemente, si sia riusciti a passare da una dimensione naturale ad una “in provetta” grazie all’operato dell’uomo. Tuttavia, l’intento andava ben oltre il riprodurre artificialmente due individui identici: questi studi, infatti, nascono per dimostrare l’equivalenza genomica tra cellule provenienti da distretti differenti: cellule diverse, specializzate in attività non collegate, condividono comunque la stessa informazione genetica.
Sulla base di esperimenti svolti da numerosi studiosi prima di lui (teorie ipotizzate ma mai dimostrate per la mancanza di strumenti adatti), John Gurdon portò a termine la prima clonazione di vertebrati nel 1966. Gurdon riuscì a clonare un anfibio, Xenopus laevis, utilizzando una parte il nucleo diploide di una cellula ormai differenziata, prelevata dall’intestino, e un oocita attivato ed enucleato tramite raggi UV. Dei 726 nuclei trasferiti, solo l’1,4% (10) furono in grado di dare dei girini capaci di alimentarsi e di completare lo sviluppo fino a diventare “nuovi” individui ma, nonostante la bassa percentuale di riuscita, questo dimostrava che nuclei di cellule ormai differenziate erano in grado di “tornare indietro” e riprogrammare lo sviluppo dall’inizio, se trapiantati in un oocita enucleato e opportunamente stimolato. Di conseguenza, almeno apparentemente, non vi era alcuna modificazione irreversibile che impediva al nucleo di una cellula differenziata di tornare sui suoi passi.


Buona la seconda: la nascita di Dolly

Questa teoria venne ampiamente confermata da Ian Wilmut con l’esperimento più famoso in assoluto per quanto riguarda la clonazione, la nascita della pecora Dolly il 5 luglio del 1996 che sancì, per la prima volta, l’equivalenza genomica in un mammifero. La tecnica utilizzata fu essenzialmente la stessa: il trasferimento nucleare di cellule somatiche (SCNT). Trattandosi di mammiferi, però, si rese necessario costruire un protocollo ben preciso.
In particolare, vennero individuati tre elementi chiave: una pecora Finn Dorset donatrice di cellule somatiche, una pecora Scottish Blackface donatrice della cellula uovo, e una madre surrogata Scottish Blackface che avrebbe portato dentro di sé il risultato dell’esperimento. Una volta prelevate, le cellule somatiche vennero messe in coltura in modo da raggiungere ubo stadio di sviluppo adeguato e compatibile con quello dell’oocita. Allo stesso tempo, l’oocita venne enucleato tramite l'uso di una pipetta (e non con i raggi UV degli esperimenti precedenti, in quanto spesso risultavano dannosi per il citoplasma) e, al momento opportuno, tramite stimolazioni elettriche, si diede luogo alla fusione della membrana delle due cellule. Una volta ottenuto l’embrione, dopo un ulteriore periodo in coltura, necessario a far avvenire un determinato numero di divisioni cellulari, esso venne impiantato nella madre surrogata.
Viste le premesse, se al termine della gravidanza fosse nato un vitellino di razza Finn Dorset da una surrogata Scottish Blackface, allora il risultato dell’esperimento sarebbe stato positivo. Al termine dell’esperimento, la scansione a ultrasuoni rilevò 21 feti singoli a 50-60 giorni dopo l’estro delle surrogate, e nei successivi monitoraggi complessivamente il 62% dei feti andò perso. Otto pecore diedero alla luce agnelli vitali, di cui, tuttavia, 7 non superarono le primissime fasi di vita. L’ottavo agnello, proveniente da una cellula della ghiandola mammaria, fu l'unico a sopravvivere: era nata Dolly.
A questo punto, fu chiaro che anche il nucleo delle cellule differenziate dei mammiferi era in grado di mantenere le sue caratteristiche di totipotenza e che, pertanto, il DNA non subisce alterazioni irreversibili durante i processi differenziativi.

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Immagine creata da SPAGHETTISCIENCE

Tornando ai giorni nostri, possiamo meglio comprendere cosa ci sia di strano nella clonazione che ha portato a Tetra e, successivamente, a Zhong Zhong e Hua Hua. Come detto precedentemente, la differenza sta nella tecnica utilizzata: Tetra è stata il prodotto di una scissione embrionale (la stessa cosa che accade nell’armadillo). Gli studiosi hanno lavorato su 107 embrioni ottenendone, per divisione, 368 di cui 13 sono stati selezionati per essere impiantati in un utero surrogato. Di questi, solo 4 si sono impiantati con successo e solo la madre surrogata che aveva in grembo Tetra ha portato a termine la gravidanza. Di conseguenza, se Tetra avesse avuto dei fratelli, questi sarebbero stati geneticamente identici a lei ma non a uno dei due “donatori” adulti. Zhong Zhong e Hua Hua, invece, sono stati ottenuti con “il metodo Dolly”, pur se con alcune piccole modifiche: infatti, il trasferimento nucleare da cellule somatiche così come era stato utilizzato in precedenza, nel caso dei primati aveva sempre condotto a embrioni non vitali. Come già era stato fatto per Dolly, sono state utilizzate differenti tipologia di cellule del donatore: nello specifico cellule provenienti dal cumulo ooforo di individui adulti e cellule provenienti da fibroblasti di feti abortiti. Complessivamente, sono state confermate 28 gravidanze: 22 utilizzando le cellule del cumulo di scimmie adulte e 6 utilizzando i fibroblasti fetali. In entrambi i casi sono nati due cuccioli ma solo quelli derivanti dai fibroblasti fetali sono sopravvissuti, dando vita, appunto, a Zhong Zhong e Hua Hua.

In questo procedimento, quindi, risiede la differenza tra Tetra e i due fratellini: i nuclei che li hanno generati (e di conseguenza il loro genoma), provenivano da un donatore adulto al quale i due sono identici. Tetra, invece, sarebbe stata geneticamente identica solo ai propri fratelli ma, rispetto ai genitori, avrebbe subito un rimescolamento genetico che avrebbe portato a un genotipo “casuale”, come accade normalmente con l’unione di due gameti. Questo potrebbe apparire un dettaglio poco importante ai fini del creare due individui identici, ma è facile capire come possa divenire un elemento fondamentale qualora fosse necessario di generare un “esercito” di individui a variabilità genetica nulla, da poter utilizzare nella ricerca biomedica per lo studio di malattie neurodegenerative come, ad esempio, Parkinson e Alzheimer. A tal proposito la scissione embrionale di Tetra consente di generare un certo numero (contenuto) di copie partendo da un singolo individuo, mentre con il trasferimento nucleare di cellula somatica, teoricamente, è possibile produrre un numero indefinito di cloni partendo da un singolo donatore.

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Immagine realizzata da SPAGHETTISCIENCE


E se i prossimi fossimo noi?

Come era facile prevedere, una volta sfondata la porta della clonazione di primati non-umani, sono emerse numerosissime perplessità legate alla possibilità che la prossima tappa sia proprio la clonazione dell’uomo. Molti si sono immediatamente schierati dalla parte della morale e dell’etica, condannando senza possibilità di appello questa pratica; allo stesso tempo, però, c'è chi osserva entusiasta valutando le numerose possibilità e innovazioni a cui questa ricerca può condurre. Ma, al di là delle grandi discussioni, la clonazione umana è veramente così vicina come potrebbe sembrare? E, se così fosse, quanto sarebbe necessaria?
Partiamo dal presupposto che i padri stessi di questo esperimento hanno affermato di non avere alcuna intenzione di applicare questa tecnica agli esseri umani.
Inoltre, per quanto possa sembrare paradossale, l’impiego di questo processo per l’ottenimento di un certo numero di cloni potrebbe addirittura ridurre il numero di esemplari necessari per la ricerca dal momento che la precisione delle osservazioni consentirebbe dei campioni decisamente ridotti.
Ma tornando agli umani, dobbiamo ricordare che i paesi dell'UE hanno firmato una convenzione per la protezione dei diritti umani e la dignità degli stessi che stabilisce il divieto di tale pratica, così come in tante altre parti del mondo. In ogni caso, si deve anche riconoscere che, nonostante i recenti risultati, non siamo affatti vicini alla possibilità di compiere un esperimento del genere. Occorre essere realisti sul fatto che, per ora, la tecnica non sia particolarmente efficace (due esperimenti riusciti su ventotto tentativi).
L’esperimento più vicino all’uomo, da questo punto di vista, è stato il tentativo di clonare, a scopo terapeutico, cellule staminali: di 242 ovuli utilizzati solo uno è stato in grado di produrle mentre gli altri avevano un numero esagerato di anomalie cromosomiche. Un altro aspetto da considerare è legato alll’invecchiamento precoce: infatti, i due piccoli macachi hanno solo due mesi di vita, ma non si può in nessun modo prevedere quanto la loro salute possa continuare ad essere stabile. Questo perché è stato osservato che, in realtà, il DNA delle cellule utilizzate ha i telomeri più corti (i telomeri sono le porzioni terminali di ogni cromosoma, queste porzioni si usurano ad ogni divisione accorciandosi finché la loro lunghezza non consente più la protezione della cellula che, riproducendosi in modo scorretto, genera l’invecchiamento) e questo porta o a un cattivo stato di salute degli individui generati o al fatto che una parte dei cloni abbiano tare funzionali e malformazioni importanti (sempre che riescano a sopravvivere dopo la nascita). È quindi facile capire che, sebbene teoricamente il metodo potrebbe aprire uno spiraglio per la clonazione dell’uomo, al momento non ci sono i presupposti perché questa cosa possa accadere.

Infine, una considerazione doverosa riguarda il contesto culturale e l’etica che animano le discussioni attorno a fatti di questo tipo, anche nel caso in cui si parli di animali, e non di esseri umani. Infatti, in Europa (e soprattutto in Italia), esistono delle norme specifiche e stringenti in materia di sperimentazione animale. In particolare, è concesso l’utilizzo di primati non-umani solo come ultima spiaggia, ovvero nei casi in cui sia esplicitamente chiara l’impossibilità di una soluzione alternativa. La situazione è molto diversa in Cina dove non esistono delle leggi esaustive contro la crudeltà nei confronti degli animali e dove i primati sono ampiamente impiegati nella ricerca scientifica. Nonostante ciò, sottolineamo come gli autori dello studio si siano attenuti a protocolli in materia di benessere animale in linea con quelle stabilite dagli U.S. National Institutes of Health e si definiscano "molto attenti alle condizioni dei macachi da laboratorio".

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Immagine CC0 Creative Commons - Fonte


Conclusioni

Alla luce di quanto detto, possiamo ora rispondere a una domanda fondamentale: l’esperimento è davvero riuscito?
Ci sono diverse possibili interpretazioni. Dolly era stata presentata al mondo con un articolo pubblicato su Nature dal titolo:

Viable offrspring derived from fetal and adult mammalian cells

sottolineando l’importanza dell’origine del suo patrimonio genetico. Per i due piccoli macachi, invece, è stato scelto:

Cloning of Macaque Monkeys by Somatic Cell Nuclear Transfer

concentrandosi più sulla clonazione in sé e non sul tipo di cellula somatica. Dolly (che ha avuto una vita relativamente lunga) ha sancito l’equivalenza genomica nei mammiferi proprio perché l’esperimento è riuscito utilizzando cellule somatiche pienamente differenziate donate da un individuo vivo e adulto. L’utilizzo di cellule adulte, nel caso dell’esperimento con i macachi, ha generato due individui che sono morti a poche ore dalla nascita. Solamente utilizzando dei fibroblasti fetali provenienti da feti abortiti si è riusciti ad avere successo ma a questo punto c’è da chiedersi se un fibroblasto (ancora totipotente di per sé) possa essere paragonato a una cellula della ghiandola mammaria completamente differenziata. Tuttavia, nonostante entrambi gli esperimenti siano stati presentati al mondo come tentativi riusciti di clonazione, dovrebbe far riflettere il fatto che esperimenti considerati così simili, in realtà, condividano più il metodo SCNT (che, peraltro, esisteva ben prima di Dolly) che il risultato in sé. Eppure, nella maggior parte delle testate giornalistiche non si è potuto fare a meno di associare i due eventi, arricchendo la vicenda con gli elementi necessari a sollevare il dibattito etico. Ma era davvero questo l’intento finale di chi, per primo, ha ipotizzato e successivamente condotto questo tipo di esperimenti?


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Immagine CC0 Creative Commons, si ringrazia @mrazura per il logo ITASTEM.
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Bibliografia


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