Open Science e riviste scientifiche – Quando la blockchain può essere d’aiuto

in #ita6 years ago

Traduzione italiana del post precedente:

Open Science and scientific journals - When the Blockchain could be helpful


All’inizio di aprile, la rivista Science ha pubblicato un breve articolo all’interno del quale si evidenziava come le nuove norme in materia di copyright attualmente al vaglio della Commissione Europea potessero mettere in pericolo i tanti traguardi raggiunti dalla comunità scientifica internazionale rispetto al concetto di Open Science, ovvero l’idea per cui i dati e le scoperte scientifiche debbano essere liberamente accessibili e distribuite. La nuova regolamentazione europea, infatti, sembra prevedere l’introduzione di commissioni sull’utilizzo di immagini, grafici, titoli ma anche citazioni, relativamente al loro utilizzo da parte di terzi, siano essi siti web o altri ricercatori. Se per certi versi è legittimo aspettarsi che, nell’era digitale, le norme in materia di copyright vengano aggiornate ed evolute, per altri è da considerarsi altrettanto giustificata la perplessità dei ricercatori del vecchio continente nell’apprendere la notizia. Accedere alle fonti, anche allo stato attuale, può risultare un’esperienza complicata e costosa, e anche solo per acquisire i diritti per la pubblicazione di un’immagine si può arrivare a spendere alcune centinaia di euro. Cifre che, è bene precisare, non vengono in alcun modo incassate dall’autore della pubblicazione, ma finiscono nelle tasche degli editori. Un inasprimento delle norme potrebbe portare ad un ancor più complicato accesso a questo tipo di risorse, soprattutto per quei gruppi di ricerca che non godono di grandi sovvenzioni.


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La situazione attuale

Dobbiamo riconoscere che, almeno in Europa, la situazione in epoca recente non è così negativa: i sostenitori della Open Science sono numerosi, e sono riusciti in passato a muovere e indirizzare numerose decisioni della Commissione Europa. I regolamenti attuali infatti, pur con i propri limiti, sostengono e incentivano pratiche coerenti con il concetto di Scienza Aperta e, in ambito accademico, si osserva una buona collaborazione tra le diverse università e i numerosi centri di ricerca.
Purtroppo, la situazione normativa è ben più complessa di quanto si possa immaginare, e quella reale si spinge ancora oltre.

Da un punto di vista pratico, le dinamiche che regolano la diffusione della scienza, e quindi le pubblicazioni scientifiche, sono organizzate a livello mondiale: semplificando, un articolo scientifico diventa “valido” nel momento in cui viene pubblicato su riviste scientifiche specializzate, che sono per loro natura sovranazionali. Un autore non riceve nessuna entrata economica nel pubblicare il proprio lavoro e anzi, molto spesso, deve contribuire di tasca propria alle spese di editoria; eppure l’intera comunità scientifica ha consciamente deciso di sottostare a questo meccanismo che, diciamolo, arricchisce unicamente la lobby delle case editrici. Perché?
Fondamentalmente perché questa è l’unica strada per veder riconosciuto il proprio lavoro e, nel caso esso sia valido, per ottenere successivi finanziamenti o per accedere a bandi di concorso. Per raggiungere questi traguardi, infatti, è spesso necessario che il proprio lavoro sia stato citato un certo numero di volte da altri colleghi, e questo può avvenire solo attraverso le riviste specializzate.
La verità, quindi, è che si tratta di un cane che si morde la coda. I ricercatori accettano una condizione scomoda perché è l’unica che può garantir loro un riconoscimento, i finanziatori scelgono in base a questo meccanismo perché garantisce standard elevati. Fuori dallo schema, troviamo appunto le case editrici; davvero non è possibile eliminare questo inutile giocatore? E da dove arrivano?




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Aerial view of Hanford B-Reactor site (Manhattan Projcet), June 1944

Da Little Science a Big Science

C’era una volta la Little Science. Si trattava di quella scienza che nasceva e si muoveva nei piccoli laboratori, nelle singole scuole, nei laboratori di qualche mecenate o, talvolta, nel cervello del singolo scienziato.
Il progresso era lento, e spesso una persona dedicava una vita intera ad una singola scoperta. Scoperta che poi andava difesa con i denti, perché la mancanza degli attuali mezzi di comunicazione e condivisione rendeva difficile attribuire con certezza una nuova idea a uno scienziato piuttosto che a un altro.
Ad un certo punto, però, ci si rese conto che questo modo di fare scienza non era più sufficiente. Gli argomenti diventavano complessi, gli esperimenti costosi, e si prospettò la necessità di iniziare a condividere la grande mole di dati e scoperte che si andava raccogliendo, così da rendere più veloce ed efficiente il progresso.

Sorse allora la Big Science. La sua nascita viene comunemente fatta risalire alla fondazione del Progetto Manhattan, il programma di ricerca governativo attraverso il quale gli Stati Uniti crearono la prima bomba atomica della storia. Si trattò di un progetto dalle enormi proporzioni, che richiese un importante sforzo interdisciplinare e la collaborazione non solo tra scienziati provenienti da scuole diverse, ma anche tra diversi settori della società.
Non tutti, comunque, sono concordi su quale sia effettivamente lo spartiacque che segnò il passaggio da Little Science a Big Science. Alcuni la fanno risalire addirittura al primo viaggio di Napoleone in Egitto, durante il quale venne coinvolto un cospicuo numero di scienziati specializzati in discipline diverse.
Di fatto, però, non è facile e nemmeno necessario identificare una data precisa; La Big Science rappresenta molto probabilmente la naturale evoluzione della Little Science, ma il passio tra le due rappresenta un processo durato secoli, e avviatosi probabilmente nel 1600 con la comparsa dell’idea di Open Science.


Il concetto di Open Science e le riviste scientifiche

Fa quanto meno storcere il naso, oggi, pensare che le riviste scientifiche nacquero a Londra a metà del 1600 con la Philosophical Transactions of the Royal Society, proprio come risposta alla crescente necessità di avere una Scienza Aperta. Da una parte, gli scienziati non erano più in grado lavorare singolarmente e in autonomia ai propri lavori, in quanto soprattutto la parte empirica diventava sempre più complessa; dall’altra, i singoli mecenati non potevano più assicurare ai ricercatori i fondi necessari, e si rendeva quindi necessario un meccanismo di finanziamento più articolato. Maggior fondi, però, richiedevano un maggior controllo.
Almeno nel primo periodo, quindi, le riviste sembravano rappresentare la risposta e il compromesso ideale necessari al funzionamento dell’intero sistema.




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Oggi il concetto di Open Science si è decisamente evoluto, come è giusto che sia, e rafforzato. Con questa espressione di tende a indicare una corrente di pensiero secondo la quale la scienza dovrebbe essere aperta e accessibile per chiunque. Questo modo di intendere la scienza è nettamente in contrasto con ciò che rappresentano, oggigiorno, le riviste scientifiche. Comprare una rivista potrebbe apparire un’attività non particolarmente dispendiosa, ma il ricercatore che desideri avvisare un progetto necessita di leggere centinaia di articoli provenienti spesso da diversi giornali. Se a questo si aggiunge la possibile e futura regolamentazione europea sul copyright, utilizzare lavori pregressi per avviarne di nuovi potrebbe diventare alquanto complicato. Ma facilitare questi processi era proprio il motivo per cui la Open Science è nata!
I maggiori sostenitori della Open Science fanno inoltre notare come una fetta importante dei finanziamenti per la ricerca provengano oggi da fonti pubbliche. È quindi assurdo che un contribuente, dopo aver finanziato di tasca propria uno studio, debba nuovamente pagare un editore per poter accedere ai risultati.

Ovviamente esistono anche numerosi e importanti detrattori del concetto di Open Science; le due più importanti argomentazioni in questo senso sono la possibilità di utilizzare eventuali dati scientifici liberamente accessibili per scopi negativi, e la concreta possibilità che un sistema davvero aperto venga abusato e sia fonte di informazione ma anche di disinformazione. Il più famoso esempio in questo senso riguarda lo studio di alcuni ricercatori olandesi che decisero di pubblicare il proprio lavoro sull’ingegnerizzazione di un virus dell’influenza; essi vennero duramente criticati, e molti di dimostrarono preoccupati dalla possibilità che questo agevolasse la creazione di armi biologiche.

Entrambe le obiezioni, quindi, sono sensate e rappresentano problemi reali. Non dovrebbero però essere prese come base per sminuire il concetto stesso di Open Science, ma piuttosto come criticità sulle quali riflettere per mettere a punto un sistema efficiente.


Soluzioni e prospettive

È necessario riconoscere poi un altro aspetto della scienza moderna: dal punto di vista della sua apertura alla società essa corre su due binari distinti e paralleli, che difficilmente potranno incontrarsi.
La scienza di base, quella più teorica, è quella che più facilmente viene condivisa. La scienza applicata, quella più pratica e più finalizzata alla realizzazione di opere concrete, invece, mira spesso alla produzione di qualcosa che possa poi essere brevettato e generare introiti; quest’ultima forma di scienza difficilmente potrà essere condivisibile, o lo diverrà solo molto tempo dopo l’effettiva conclusione del lavoro.
Si potrebbe discutere a lungo se questo sia giusto o sbagliato, ma la cosa migliore che si possa fare è prendere atto di questa differenza e ragionare di conseguenza.

In questo senso, il discorso sulla Open Science e sulle riviste scientifiche riguarda soprattutto quella parte di ricerca che è normalmente competenza della ricerca di base e che viene in qualche modo condivisa all’interno delle comunità.
Nel corso degli anni sono state proposte ed esplorate diverse soluzioni in merito, la maggior parte delle quali si è però dimostrata fallimentare ed ha contribuito a peggiorare la situazione.
Sono state create, per esempio, riviste totalmente gratuite, sulle quali è possibile pubblicare a spese degli autori. Nonostante questo abbia permesso effettivamente un libero accesso alle risorse, si è anche creata una situazione paradossale grazie alla quale è sufficiente pagare per poter pubblicare. Questo meccanismo viene quindi sfruttato per scalare graduatorie e accedere a bandi e concorsi altrimenti preclusi.
Altre soluzioni più “fai da te” hanno riguardato la creazione di archivi pirata all’interno dei quali vengono raccolti gli articoli ottenuti legalmente dai ricercatori che decidono poi di contribuire alla piattaforma.
Tutte queste soluzioni rappresentano però dei tamponi, e nessuna sembra dare un vero contributo all’evoluzione dello stallo.


E se la soluzione fosse nella blockchain?

Negli ultimi anni si parla con sempre maggior insistenza di blockchain e della sua tecnologia rispetto a diverse applicazioni; sarebbe possibile utilizzarla anche in questo settore?
La blockchain è un registro pubblico in cui tutti possono vedere (quasi) tutto, pubblicare un proprio lavoro su una piattaforma del genere significherebbe renderlo immediatamente disponibile a tutti e per sempre. I criteri di pubblicazione, inoltre, quali che fossero, potrebbero essere uniformi e immutabili, e tutto si svolgerebbe sotto la luce del sole. Sarebbe molto difficile, se non impossibile, ingannare il sistema e favorire la pubblicazione di questo articolo piuttosto che di quello. L’intera comunità scientifica, inoltre, potrebbe contribuire ad una revisione seria e onesta dei lavori proposti attraverso i commenti e l’integrazione con altri dati. Infine, qualora la comunità scientifica decidesse di applicare delle piccole commissioni sull’uso di determinato materiale, come per esempio le immagini, queste potrebbero essere introitate direttamente dagli autori, e non dalle inutili case editrici.


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Esistono ovviamente anche delle criticità. Sarebbe necessario convincere almeno una parte della comunità a utilizzare questo strumento, pubblicandovi parte dei propri lavori. Questo potrebbe tradursi nell’impossibilità di scalare le graduatorie basate su indicatori bibliometrici. Ricercatori che necessitino il riconoscimento da parte della comunità, per un motivo o per l’altro, potrebbe quindi trovare serie difficoltà nell’utilizzo di una piattaforma del genere, almeno nelle fasi iniziali.
Bisognerebbe consolidare un meccanismo simile all’attuale peer-review nella fase pre-pubblicazione, in modo da garantire l’ingresso nella piattaforma solo a materiale di comprovata qualità.
Infine, sarebbe fondamentale la creazione di una infrastruttura dedicata e decentralizzata che permetta il funzionamento dell’intero sistema; potrebbero essere forse le università a farsi carico di questo aspetto, ma servirebbero i giusti incentivi da parte degli stati, che invece sembrano spesso dalla parte degli editori tradizionali.


Conclusioni

La blockchain potrebbe non essere l’unica soluzione a questo problema, e molto probabilmente nei prossimi anni assisteremo alla nascita di nuove idee in merito; il contrasto tra ricercatori e case editrici è sempre più aspro e qualcosa dovrà succedere, in un senso o nell’altro.
Il passaggio da Little Science a Big Science avvenne perché la scienza iniziava a stare stretta nell’abito che le era stato cucito addosso, ma furono necessari alcuni catalizzatori perché l’evoluzione fosse portata a termine. Come molte altre volte è accaduto nella nostra storia, questi catalizzatori furono le grandi guerre.
Ora la storia si ripete: scienza e scienziati iniziano a sentirsi a disagio, intrappolati tra le maglie di un sistema che non funziona troppo bene. È davvero necessario aspettare anche questa volta un catalizzatore che sblocchi la situazione? È proprio impossibile mettersi d’accordo e affrontare il problema senza che qualche evento catastrofico ci obblighi a farlo?

Per ora, purtroppo, pare sia così.


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Immagine CC0 Creative Commons, si ringrazia @mrazura per il logo ITASTEM.
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Fonti


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Logo creato da @ilvacca

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Ottimo post! La situazione è molto complessa e la soluzione di adottare una blockchain personalmente sembra essere una buona soluzione.
Un saluto, nicola

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