"La macchina a rate"

in #ita6 years ago (edited)

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Marisa era veramente stanca.
Della ragazza che solo quattro anni prima si era sposata, convinta di coronare il suo sogno d’amore, era rimasta davvero l’ombra.
Così pensava, guardandosi allo specchio in una cupa mattina di novembre del 1958.
Aveva solo ventun anni al momento in cui era andata in moglie a Gianfranco, impiegato del catasto e ragazzo perfetto, con cui era fidanzata fin dalla prima superiore.
Anche lui era giovane, solo tre anni più di lei, ma incredibilmente maturo.
Durante il lungo periodo intercorso tra la loro conoscenza e il matrimonio, entrambi avevano terminato la scuola, lui ragioneria e lei le magistrali.
Poi Gianfranco era partito per il militare e, a seguire, era riuscito a vincere un concorso pubblico.
A quel punto l’unico passo da fare era sposarsi.
Marisa, dopo il diploma, aveva insegnato per due anni dalle suore, alla scuola materna e le piaceva anche. Con i bambini si trovava bene.
Ma poi, durante i preparativi delle nozze, i genitori, i suoceri e lo stesso fidanzato l’avevano convinta a lasciare il lavoro, dal momento che una donna deve dedicarsi alla famiglia, non stare fuori tutto il giorno per poi correre trafelata e magari non riuscire a tenere la casa in ordine.
Ricordava spesso la voce un po’ stridula di sua suocera quando, poco prima del matrimonio, sentenziava: “Chi lavora ha una camicia, chi non lavora ne ha due!”.
E così, con grande dispiacere delle suore e dei genitori dei bambini, si era licenziata per essere pronta ai suoi doveri di moglie.
Un breve viaggio di nozze a Venezia, con una deludente prima intimità, aveva rapidamente lasciato il posto ad un quotidiano fatto di faccende ripetitive, spesa, due chiacchiere con la mamma e poi Gianfranco che tornava dal lavoro e non somigliava per niente al ragazzo innamorato che credeva di aver sposato.
Era freddo, distratto, pretenzioso. Criticava i suoi piatti, l’ordine imperfetto del piccolo appartamento e anche la pettinatura corta, troppo da ragazzina, diceva.
Così Marisa si fece crescere i capelli, studiò manuali di cucina e si impegnò oltremisura nelle pulizie.
Questo non cambiò di molto l’atteggiamento del marito che già un mese dopo il matrimonio trascorreva il suo giorno libero con gli amici allo stadio e al bar.
La sera il sesso, non troppo frequente, era veloce e sbrigativo.
La giovane sposa si chiedeva se davvero fosse valsa la pena di rinunciare al lavoro che le piaceva.
Provò a parlarne con la madre.
“Marisa, tesoro mio, gli uomini sono così. Poi, vedrai, avrai un bambino e passerà tutto. Come dice la canzone? Son tutte belle le mamme del mondo…”
In effetti, un anno dopo il matrimonio, Marisa rimase incinta.
Gianfranco sembrava entusiasta e anche un po’ più gentile.
Faceva progetti per il bambino, lo avrebbe portato alla partita e poi, chissà, forse sarebbe diventato un grande calciatore o magari un ciclista come Coppi.
I sogni del tenero padre si infransero in una fresca mattina di primavera quando, anziché il campione atteso, venne alla luce una bella bambina. Sana e robusta, ma pur sempre femmina.
Il padre novello non riuscì a mascherare il suo disappunto.
Aveva pronto il nome per il maschio, sarebbe stato Carlo, come suo padre. Ma una bambina… proprio non aveva idea.
Marisa ne approfittò per scegliere il nome e la chiamò Antonella, come la Lualdi, un’attrice che le piaceva molto.
Così erano trascorsi (o meglio sfuggiti) altri due anni.
Gianfranco era disinteressato sia a lei che alla bambina.
Quando era a casa fumava, guardava la televisione e si coricava quando la moglie e la figlia dormivano.
L’unica comunicazione di un certo rilievo c’era stata quando, nell’estate precedente, il giovane marito aveva detto a Marisa che presto avrebbero avuto un’automobile.
“E con quali soldi?” aveva chiesto lei che già faceva quadrare il bilancio familiare con difficoltà.
“Facciamo le cambiali” Lui, tranquillo.
“Le cambiali? Ma veramente…”
“Ascolta, pallina- aveva risposto lui sprezzante –i soldi li porto a casa solo io, tu stai tutto il giorno a trastullarti, quindi decido io. Punto”.
Marisa aveva pianto in silenzio quella sera e non era stata affatto entusiasta quando, alcuni giorni dopo, il marito l’aveva portata a ritirare la macchina, una Alfa Romeo elegante, color grigio argento, con tutti gli optional. Perfino un accendisigari, pensò Marisa con disappunto, Gianfranco avrebbe fumato anche lì.
“Allora, cos’è quel muso? Non ti piace? Tante donne sarebbero felici di salire su una vettura così bella”.
“Lo sarei anch’io se fossi sicura di poterla pagare”
Inutile dire che la serata finì in una lite e il marito uscì subito dopo cena, tornando tardissimo.
Da quel momento, i giorni della povera Marisa erano stati dominati dal senso di inadeguatezza, dell’affanno nel far tornare i conti di casa, risparmiare su tutto e, intanto, aver cura della bambina. Che, per fortuna, cresceva sana e bellissima, anche se il padre non se ne curava affatto.
Ogni tanto cercava di sfogarsi con la madre, ma era veramente un muro di gomma. Finiva con frasi fatte, tipo: una moglie deve stare al suo posto, hai una figlia e ti deve bastare. E così via.
Quella mattina di novembre, Marisa si guardava allo specchio sentendosi devastata dentro e fuori.
In realtà era terribilmente giovane e graziosa, ma la tristezza e l’affanno le impedivano di vedersi com'era davvero.
Le rate della macchina, unite all’affitto, le bollette e le spese quotidiane, la rendevano ansiosa e tesa.
Così, quando suonò il campanello, sobbalzò.
Non capiva chi potesse essere, alle dieci di mattina.
Sua madre era passata prima a prendere la piccola Antonella per portarla ai giardini.
“Così tu puoi pulire e stirare con calma, te la riporto verso mezzogiorno”.
Andò ad aprire. Era una ragazza più o meno sua coetanea, così la fece entrare, non le sembrava un pericolo.
Si presentò. Laura, studentessa universitaria di lettere, vendeva enciclopedie porta a porta.
“Cara – le disse Marisa – abbiamo comprato un’Alfa Romeo argentata, stiamo pagando rate come se fosse d’oro. Non ho una lira”
Laura, pur se delusa, accettò di prendere un caffè con Marisa e si misero a parlare.
Era una cosa nuova per la giovane sposa. Lei non aveva amiche.
Dalla famiglia di origine era passata al fidanzamento e poi al matrimonio e alla maternità. Non parlava mai con altre ragazze.
La conversazione con Laura le aprì un mondo. Un mondo dove le donne sceglievano la strada da percorrere, si sposavano per scelta e non a ventun anni. E, soprattutto, si volevano realizzare come persone, lavorare ed essere autonome.
Nacque un’amicizia che in breve divenne importantissima per Marisa.
Laura studiava lettere all’università e conosceva bene la storia e la letteratura. Le fece leggere i libri di Sibilla Aleramo, antesignana dell’emancipazione femminile.
Poi le fece conoscere le opere di Simone De Beauvoir, in particolare “Il secondo sesso” che lasciò Marisa letteralmente a bocca aperta.
Nuove prospettive e modo di vedere la vita si aprivano.

-La donna? è semplicissimo - dice chi ama le formule semplici: è una matrice, un'ovaia; è una femmina: ciò basta a definirla. In bocca all'uomo, la parola "femmina" suona come un insulto; eppure l'uomo non si vergogna della propria animalità, anzi è orgoglioso se si dice di lui: "È un maschio!- >

Marisa non aveva mai pensato che si potesse rivendicare la propria autonomia, ma la conoscenza di Laura, i loro discorsi ed i libri che le proponeva le fecero capire che c’era davvero tanto mondo al di là del piccolo appartamento e delle rate della macchina.
Contro il parere del marito e dei genitori (non parliamo dei suoceri…), riprese a insegnare dalle suore e preparò il concorso per la scuola elementare.
Studiava con rabbia e convinzione, oltre che col costante sostegno della sua amica.
Al concorso ebbe un punteggio altissimo e risultò vincitrice.
L’anno dopo insegnava nella scuola pubblica e prese a farsi aiutare qualche ora nelle faccende di casa. Il doppio stipendio permise di far fronte alle rate in modo più sereno e, soprattutto, indusse Gianfranco a guardarla non come un soprammobile, ma come un individuo definito e degno di considerazione.
La famiglia, nel 1962, si accrebbe di una componente, un’altra bambina, ma questa volta il padre sapeva che non si trattava di una persona di serie B, ma di una futura donna.
Dunque, l’accoglienza fu ben diversa rispetto alla nascita di Antonella.
Marisa volle chiamare la sua seconda figlia Simona, in onore di Simone De Beauvoir e la madrina fu Laura, l’amica preziosa che l’aveva salvata da abbrutimento e depressione.

Molti anni dopo, Marisa, parlando con le figlie, consigliò loro di leggere “Una donna spezzata”, di Simone De Beauvoir.
“Perché vedete, ragazze, quella donna spezzata avrei potuto essere io, se quel giorno Laura non avesse suonato alla mia porta. E voi, mi raccomando, rafforzate la vostra cultura, coltivate interessi e scegliete un lavoro che amate. E, soprattutto, non rinunciate mai a voi stesse per un uomo. Ho detto bene, Gianfranco?”
Il marito annuì: aveva capito che la felicità di una coppia non passa dalla prevaricazione, ma dall’amore e dal rispetto dell’altro.

FINE

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Da femminista e lottatrice quale sono, questo racconto mi ha emozionato moltissimo. Il lieto fine poi è stato una piacevole scoperta, perché diciamolo, Marisa è stata anche fortunata, proprio come dice @mad-runner, non tutte i mariti avrebbero preso la sua emancipazione come Gianfranco a quei tempi, e purtroppo ancora oggi.

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ho voluto regalare un lieto fine a tutte quelle "Marise" degli anni '50 e oltre che purtroppo non l'hanno avuto

Si, ed è stato molto bello ed emozionante!

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Bello, significativo, perfettamente inserito nell'epoca di riferimento, fortunata la cara Marisa a trovare un uomo che abbia capito e compreso il valore della donna, a quei tempi non era certo una cosa diffusa, e la stessa cosa purtroppo si può dire anche ai giorni nostri, non c'è bisogno di andare a trovare altri paesi al di fuori dell'Italia, anche nelle nostre zone interne e impervie e persino nelle grandi città ci sono migliaia di uomini imbecilli che sono rimasti all'età della pietra.
Brava @fulviaperillo, ottimo racconto davvero

è stato sempre molto difficile che gli uomini riconoscessero il valore della donna e del suo lavoro, specie all'epoca del racconto. Ho voluto essere ottimista e dare un segnale di speranza.

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