Passata l'ultima sosta per le nazionali, i campionati di calcio europei non si fermeranno più, fino all'ultima giornata e ai conseguenti verdetti finali. Una volata lunghissima, dalla durata di un paio di mesi, che costringerà le squadre, specialmente quelle impegnate nelle fasi decisive delle competizioni europee, a scendere in campo spesso anche due o tre volte nell'arco dei sette giorni.

Aprile è da sempre il mese più caldo per quanto riguarda le varie competizioni calcistiche e, come accade in una maratona, trovarsi in perfetta forma proprio in corrispondenza del traguardo è molto più importante dell'aver mostrato i muscoli nelle fasi iniziali. Può sembrare un controsenso, dato che nel nostro calcio non esistono i play-off e il numero di punti assegnato per le vittorie rimane sempre lo stesso, in qualsivoglia periodo dell'anno, ma scavando bene a fondo la questione ci si rende conto di come questa teoria affondi le proprie radici su diversi ricorsi storici.

Sul finale della stagione, i meccanismi psicologici che hanno caratterizzato il resto del campionato moltiplicano la loro incidenza nella testa e nelle gambe dei calciatori, riflettendosi di conseguenza sui risultati del campo. Chi è impegnato in una rincorsa, a patto di non aver perso troppo terreno in precedenza, potrebbe veder scattare l'effetto adrenalinico, simile a quello di un predatore che "annusa" la paura secreta dalle ghiandole surrenali della propria vittima, mentre chi si trova davanti rischia di essere assalito dall'improvviso timore di non farcela.

_{Il Milan, campione d'Italia nella stagione 1987-88. Public domain image}

In passato, la Serie A ha visto diverse rimonte scudetto clamorose concretizzarsi, sebbene nessuno avrebbe mai puntato un centesimo sulle squadre inseguitrici, ed almeno in questo senso la cosa ha colpito in maniera democratica un po' tutte le grandi protagoniste del calcio italiano: l'Inter di Herrera, il Milan di Rocco e quello di Arrigo Sacchi, la Juventus di Ancelotti e il Napoli guidato da Ottavio Bianchi hanno in comune non solo l'essere state tra le più forti squadre del nostro movimento, ma anche la spiacevole sensazione di uno scudetto svanito a pochi calci dall'ultimo fischio.

La domanda che sorge spontanea tra tutti gli appassionati, in relazione all'attuale campionato, è questa: può il Napoli schiacciasassi visto per tre quarti della stagione, crollare clamorosamente proprio negli ultimi due mesi e perdere, come accaduto agli squadroni sopra citati, uno scudetto mai apparso davvero in discussione fin da gennaio?

La risposta logica a questo interrogativo non può che essere categoricamente negativa. Con trentatré punti rimasti a disposizione delle partecipanti e diciannove di vantaggio sulla seconda in classifica, la banda di Luciano Spalletti, fin qui costretta a patire due sole sconfitte, dovrebbe perdere sette delle undici restanti gare (a patto che chi insegue naturalmente le vinca tutte) o quanto meno andare incontro ad una sfilza di pareggi poco pronosticabili.

Le cose potrebbero cambiare leggermente nel caso in cui, a fine aprile, il CONI decidesse di restituire i quindici punti di penalizzazione sottratti alla Juventus, riducendo di qualche lunghezza il vantaggio dei partenopei sulla più diretta inseguitrice, ma è altamente probabile che, anche in questo caso, nulla possa frapporsi tra i giocatori azzurri e il terzo scudetto della storia partenopea.

_{Sara Errani, foto da Lbp06, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons}

L'unica speranza, per i tifosi neutrali, che intendano godere di una lotta più avvincente per la conquista del titolo, o per quelli delle squadre che inseguono, è che gli azzurri vengano colti da una potente forma di "braccino del tennista", quello strano ed inspiegabile blocco psicologico che colpisce all'improvviso gli sportivi, rendendoli incapaci di compiere anche i gesti più banali.

La tennista Sara Errani, una delle più forti atlete italiane della disciplina (è arrivata anche al numero cinque delle classifiche WTA), nel suo libro "Excalibur", dedica un capitolo proprio a questo aspetto. Contrariamente a quello che si possa pensare, la sindrome del "braccino" ha afflitto almeno una volta in carriera tutti i tennisti professionisti, non risparmiando nemmeno le star più famose.

I colpi che fino a qualche istante prima venivano naturali, improvvisamente non riescono più, causando nel cervello un loop di negatività dal quale è difficile uscire. La paura di sbagliare e la sensazione di stare perdendo il controllo dei propri gesti atletici prodotta dalla mente, impedisce l'invio dei giusti segnali al corpo, che si inceppa e non funziona più nella maniera corretta.

Se poi chi è costretto ad attraversare questa crisi non è abituato a fare corsa di testa, gli effetti prodotti potrebbero rivelarsi ancora più negativi, proprio per la scarsa attitudine a reggere la pressione.

Statemi bene, alla prossima!

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