CHE GRAN PEZZO DI...
CHE GRAN PEZZO DI..
C’era una volta un uomo, e quell'uomo ero io, che viveva nella placida monotonia di una cittadina qualunque. Le giornate passavano lente, scandite dal ticchettio di un orologio troppo noioso per essere notato. Il mio nome è Annibale, e già qua! Da giovane ho coltivato con fervore una profonda avversione per tutto ciò che era considerato bello, romantico e poetico.
I tramonti, ad esempio, li trovavo ridicoli. Quelle tinte arancioni e rosse che tutti osservavano con occhi sognanti mi sembravano solo un fenomeno atmosferico senza alcun senso. Le cene a lume di candela? Un’inutile spreco di energia e cera. E non parliamo dei fiori! Inutili organismi vegetali destinati a morire nel giro di pochi giorni.
La poesia era per i deboli di mente, le canzoni d'amore una melodia per chi non aveva di meglio da fare. E poi tanto sapevo che l’universo doveva finire, e che niente durava per sempre, quindi perché darsi tanto da fare?
Poi arrivò quel giorno fatidico. Un giorno come tanti altri, o almeno così pensavo. Ero in biblioteca, intento a leggere un saggio sulla teoria del caos (ironia della sorte), alzai gli occhi, e vidi un tocco di gnocca, sì diciamolo chiaro e usiamo una sineddoche (una figura retorica che usa una parte importante per il tutto), sarebbe un peccato non usare questa parola, vidi veramente (absint iniuria verbis), un tocco di figa formidabile, e tutto magicamente acquistò immediatamente senso, tutto si riempì di significati evidenti che non necessitavano di prova alcuna. Non c’era più assolutamente niente da spiegare. Tutto valeva evidentemente la pena di essere vissuto e sperimentato. E tutto questo confermava il proverbio spagnolo intraducibile:" Tira mas un pelo de cica che un caro de cien toros".
Lei era lì, tra le corsie di scaffali polverosi, una ragazza dai capelli castani e un sorriso che sfidava le leggi della fisica. Portava un vestito leggero, che ondeggiava delicatamente ad ogni passo, come un fiore cullato dalla brezza. E in quel preciso momento, qualcosa dentro di me si ruppe.
Mi avvicinai a lei, con la stessa sicurezza con cui un panda si lancia in una gara di maratona. Il cuore batteva più forte di quanto avessi mai sperimentato leggendo qualsiasi trattato di logica formale.
"Ciao," le dissi, cercando di mascherare il tremolio nella voce, "sto leggendo sulla teoria del caos, ma credo di aver appena scoperto un nuovo livello di disordine nel mio cervello guardandoti."
Lei rise, e quel suono era la melodia più sublime che avessi mai udito. Mi disse il suo nome, e con quel nome in testa, il mondo cominciò a trasformarsi. Le cose belle che avevo disprezzato fino ad allora cominciarono a prendere forma e colore.
I tramonti divennero meraviglie celesti, ogni sfumatura un segreto da scoprire. Le cene a lume di candela non erano più un semplice spreco di risorse, ma momenti di intimità dove le parole si trasformavano in dolci melodie. I fiori, una volta organismi vegetali insignificanti, erano ora opere d'arte della natura, fragili e preziose.
Camminammo insieme sulla riva del mare, e ogni onda che si infrangeva sulla sabbia raccontava una storia d'amore eterna. Le stelle nel cielo notturno non erano più solo gas e polvere, ma occhi luminosi che vegliavano su di noi.
La logica e la razionalità si sciolsero come neve al sole, lasciando spazio a un nuovo mondo, fatto di emozioni e sentimenti. Ogni giorno era una scoperta, ogni momento un'opera d'arte. Mi insegnò che la bellezza non ha bisogno di una spiegazione, che l'amore non segue le leggi della fisica, e che a volte, le cose più belle della vita sono quelle che non possiamo comprendere appieno.
Così, da quell'incontro in biblioteca, la mia vita cambiò. Ero passato dall'essere un cinico razionale a un inguaribile romantico. E tutto grazie al puro istinto, che con un semplice sorriso aveva riscritto le leggi del mio universo.