Il "business" della solidarietà

in #lavoro6 years ago (edited)

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Immagine CC0 Creative Commons

Nella vita di tutti i giorni ci sono delle figure lavorative che creano più di qualche angoscia: penso ai poveri ragazzi (alcuni tuttavia abbastanza invasivi e maleducati) che lavorano nei call center per le promozioni telefoniche o, ancora peggio, per promuovere il trading; agli assistenti di volo Ryanair che devono portare a casa la pagnotta dell'azienda, facendo in pratica gli ambulanti sugli aerei; ai commessi che ti seguono a mò di stalking quando giri per negozi. Una categoria molto difficile da sostenere psicologicamente è quella delle persone che chiedono donazioni per no-profit via conto corrente o carta di credito, che si possono incontrare nelle piazze delle grandi città o in luoghi di grande consumo (centri commerciali, aeroporti): la causa scatenante è positiva, ma tu non puoi aiutarli o certe volte vorresti aiutare, ma a modo tuo. E magari te ne liberi con un certo senso di colpa.

Qualche volta, immagino, vi sarà capitato di chiedervi come funziona quel tipo di lavoro: per quanto mi riguarda, avendolo fatto per un'estate, come lavoro stagionale, ho avuto con questo un'esperienza intensa e particolare.
Andiamo con ordine: sostanzialmente le no-profit "appaltano" (attraverso una piccola parte del loro budget) i servizi di promozione delle loro attività ad agenzie esterne, che si occupano esclusivamente di sguinzagliare per le strade dei dipendenti. L'identikit di chi lavora in questi posti è sempre lo stesso: ragazzi e ragazze tra i 20 e i 25 anni, universitari o studenti appena usciti da scuola, un livello d'istruzione decente e un minimo di presentabilità. Non potrebbe essere altrimenti perchè è un tipo di lavoro in cui l'apparenza ha un conto, che può occupare anche 10-12 ore al giorno e richiede anche un impegno psicologico importante, considerata la quantità di no che si prende: è altamente precarizzato e la cosa più difficile per queste agenzie è garantire un ricambio, perchè nessuno dura per più di 3-4 mesi e chi resta di più a un certo punto apre il suo ufficio e si rende indipendente (ci torneremo).

Il lavoro può esser di due tipi: a contratto, rarissimo, o a prestazione. Si distinguono spesso per la no-profit di cui si occupano: chi promuove Unicef, ad esempio, è spesso contrattualizzato perchè l'agenzia è di tipologia diversa (con più legami interni alla no-profit). Si tratta di accordi che prevedono un fisso, a patto che si raggiunga un tetto minimo di donazioni mensili (ad esempio 12 sottoscrizioni). Tendenzialmente, invece, chi promuove Save the Children, Telethon o associazioni per i rifugiati viene retribuito per prestazione. Il pagamento, sostanzioso, varia a seconda della quantità e della qualità dell'elargizione: per esempio, se una persona sottoscrive per donare 30 euro al mese, chi ha chiuso la donazione otterrà 150 euro. Ci sono vari tipi da contributo: da 10 euro, 15, 20 o 30 e in tutti i casi in cui si sottoscrive la trattenuta è mensile, non si tratta di beneficienza una tantum.
Dov'è l'inghippo per il lavoratore? A parte il fatto che è difficile portare un grande afflusso di donatori, c'è un'alta possibilità sia di reject (ovvero che la donazione non parta proprio per incongruenza nei dati, come un numero di conto sbagliato...o perchè la persona in questione, contattata telefonicamente dalla no-profit, si sia tirata indietro) e di void. Se un "donatore" recede entro sei mesi dalle sue intenzioni, dalla busta paga verrà trattenuta la tua retribuzione corrispondente. Ciò comporta che non si può far firmare a parenti/amici/conoscenti qualcosa per poi farli recedere (anche lasciando il lavoro, l'ultima busta paga viene consegnata quando ci si è accertati di non subire il void) e porta a situazioni paradossali: conosco alcune persone che hanno chiuso, nel corso della loro esperienza, il mese in perdita. Tuttavia, è quasi impossibile, alla fine del rapporto lavorativo, chiudere in negativo. Invece chi fa strada e resta a lungo, raccoglie tanti, tanti soldi.

Il mestiere è rigidamente gerarchizzato: parti da semplice lavoratore, venendo inserito in un team e seguito dal team leader per una settimana. Concluso un ampio numero di donazioni in una settimana, per più settimane di fila, puoi diventare team leader. Se il team leader chiude tante donazioni, può aspirare in un raggio di tempo più ampio a diventare owner. Il passo successivo per quest'ultimo è creare un ufficio: è la situazione ideale ovviamente, perchè non scendi quasi mai per strada, coordini il lavoro di altri e fai PR e basta, guadagnando molto bene. Perchè naturalmente una fetta di quello guadagnato dalla tua agenzia (mediamente almeno una ventina di persone al lavoro) ti finisce nelle tasche.

Come funziona la giornata lavorativa di chi invece va per strade? Tendenzialmente, sei impegnato a tempo pieno. La mattina svolgi la cosiddetta formazione, che introduce tutte le regole da seguire per "vendere", il pomeriggio vai per le strade o nei cosiddetti "eventi", ovvero banchetti allestiti presso supermercati, grandi centri commerciali, piazze. La scelta delle zone della città è delicata (quelle più ricche, le cosiddette zone Q, sono le più ambite) e gli eventi sono molto contesi perchè spesso si trovano in posti mai battuti dall'agenzia (trasferte in provincia o in regione, centri commerciali, parchi, etc.). Gli orari? Se vai per strade tendenzialmente lavori in proprio dalle 15 alle 20, gestendoti come vuoi le pause, però lavori sempre in gruppo quindi è sconsigliato esser nullafacenti; nel corso degli eventi puoi esser impegnato di mattina dalle 9 alle 13 e proseguire dalle 15 alle 20. Ogni occasione è buona per ricevere donazioni, ed è tacitamente consentito anche "cacciare" occasioni fuori dall'orario di lavoro.

La formazione in ufficio è un momento abbastanza particolare: avete presente quella maschera di sovra-entusiasmo da call-center che ben rappresenta Virzì in Tutta la Vita davanti? Siamo lì con l'atmosfera di massima. I team leader, gli owner cercano di veicolare positività ed entusiasmo e fanno ovviamente leva sulla buona causa: naturalmente, per tutti noi, dare qualcosa alle no-profit a quei tempi era un motivo per avere una marcia in più. Conosco tanti ragazzi che probabilmente non avrebbero fatto quelle cose se fossero state finalizzate al profitto di una compagnia telefonica o un privato: questa è oggettivamente una cosa molto bella e differenzia alcuni tipi di persone, che stimo molto, da altre su cui tornerò.
La tecnica di base che viene spiegata insegna sostanzialmente l'identificazione del potenziale cliente, distinguendolo in Q (qualificato, in possesso di conto o carta) o NQ (non qualificato, senza carta o conto, da lasciar perdere subito); come presentarsi (vestiti bene, puliti, etc.); come approcciare il cliente con la solita prassi come sorridere, regolare il tono della voce (mai troppo aggressiva), piazzare sempre le solite 2-3 battute al momento giusto per attaccare bottone; come chiudere una donazione creando sempre una sorta di senso di benessere, non pensando solo al denaro; come gestire una donazione in sospeso, da chiudere per via telefonica (sono tantissime, spesso molti clienti s'inventano una scusa per farsi chiamare dopo e danno il numero sbagliato). La parola d'ordine è generare empatia, cosa che serve anche per evitare futuri void e quindi trattenute in busta paga.
Naturalmente una grossa parte della formazione sta nel gestire le obiezioni: il donatore non si fida di lasciare i dati? Niente paura, non si tratta di dati sensibili. C'è scetticismo a fornire dati bancari? Il sistema è a prova di truffe. Le donazioni dove finiscono? Vengono forniti una serie di dati dalle no-profit, da memorizzare, per dimostrare che non c'è dispersione. L'obiezione più debole è quella sull'entità della donazione, perchè secondo la teoria comporta un interesse a impegnarsi: in quel caso si dice sia facile ribaltarla, invece di parlare di 30 euro al mese si parla di "costo di un caffè al giorno" per concentrare l'attenzione del donatore sulla piccola spesa piuttosto che su un impegno più sostanzioso. C'è molta psicologia dietro, nulla è improvvisato e anche parlare con un tono sicuro, fluente e senza esitazioni ha un suo vantaggio.

Di tutte le esperienze lavorative che ho sostenuto, questa è stata la più singolare e particolare. Mi ha fatto capire tanto, fatto incassare tanti no, dato la possibilità di conoscere una realtà che spesso è troppo di superficie e che di fatto non viene approfondita. La mansione, alla fin fine, pur con tutte le scortesie incassate dall'essere umano (che quando vuole sa esser cattivissimo, e in questi casi lo mostra spesso), aveva anche un aspetto benefico che faceva stare bene.
Tuttavia, la scala gerarchica, il trattamento da business di tematiche particolari, il fatto che qualcuno pensasse più all'avanzamento di carriera che alla finalità benefica, fanno riflettere. Così come vedere come cause di dolore umano o storie di povertà o di sventure possano esser raccontate con trasporto robotico, finzione o talvolta con una certa mancanza di contatto con l'umanità, seguendo un manuale. Il mondo è business, e purtroppo lo è anche in questi casi. Cose che fanno riflettere, proprio davanti al tuo caffè giornaliero appena terminato: avresti davvero potuto risparmiartelo, per aiutare qualcuno?

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Molto, molto interessante perché descrivi in dettaglio una categoria lavorativa che mi sono sempre chiesta come funzionasse (non essendone mai stata parte...) Grazie!

Prego, si effettivamente non se ne parla molto, e proprio per questo l'impatto con quel mondo è molto particolare.

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