Un insulto - Racconto breve [ITA]

in #ita6 years ago

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Immagine CC0 creative commons.

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Stamane uno scontro da me intrattenuto con una collega su concetti di procedimento lavorativo, ha conosciuto il suo epilogo tramite la seguente espressione rivolta dalla medesima verso la mia persona:

“Non sei capace di defossilizzarti dalla tua idea! Questi atteggiamenti mi spazientiscono; bambinetto impertinente; stronzo!”.

Sorprendentemente ho agito in un modo che mai mi sarei aspettato, e senza alcun rancore verso l’insultatrice sono rimasto di sasso o, per meglio dire, perplesso e interdetto per un qualcosa che avevo dinanzi e che neanche lontanamente avrei mai sospettato potesse accadere, perlomeno in quel frangente.

La pausa-pranzo incombeva e levatomi dalla sedia, non prestando neppure un briciolo di pensiero a cortesie o scortesie che di norma concludono ogni sessione giornaliera di lavoro, ho abbandonato la comitiva senza proferire parola.

E’ durante l’ora successiva che ho elaborato il presente scritto mentre, preparando da mangiare, si è materializzata spontaneamente nei miei pensieri la scena vissuta qualche mezz'ora fa. Non afferrando in pieno le motivazioni di quel momentaneo sbigottimento ho pensato di fissare l’attenzione sulla collega, sull’opinione che avevo e ho di quella persona, sperando di trovare barlumi di senso che potessero illuminare.

Certo, ligia al dovere, senza mai sbavature, ritardi o quant’altro che potrebbero dare adito a rimostranze verso la stessa, eppure non posso dire mi convinca del tutto per la sua efficienza operazionale che (e ne sono profondamente convinto) si limita all’aspetto quantitativo delle problematiche che di volta in volta si presentano; ben lungi dall’avvicinarsi a scelte o proposte che dimostrino la bontà della sua utilità, l’elasticità creativa magari, estremamente richiesta, oserei dire fondamentale per l’ambito professionale del quale stiamo parlando.

Un mese è forse un lasso di tempo oltremodo limitato per maturare considerazioni su una qualsiasi persona, ma è anche vero che volenti o nolenti risulta impossibile non agire in questo modo; l’opinione che si ha su ogni cosa o persona con cui si entra in contatto va creandosi naturalmente, senza che niente all’interno di noi possa concorrere a chè tutto questo non accada. Il livello di indifferenza verso l’oggetto in questione può essere più o meno alto, ma è chiaramente impossibile che per quanto possa tendere ad alti valori, arrivi ad acquisire connotazioni di totale apatia; capita prima o poi di pensarci su, e per le caratteristiche insite nell’uomo in genere non si può evitare di tracciare confini intorno a ogni cosa con cui si entra in contatto.

Chiusa parentesi, e concludendo questa breve descrizione di quelle che sono le mie considerazioni sulla collega in questione, è opportuno fare cenno su un’importante inclinazione che col tempo acquisiscono coloro che per professione si occupano di elaborazioni grafiche come il sottoscritto: l’incontrollabile capacità di produrre in qualsiasi contesto, a qualsiasi ora, insomma nei più disparati ambiti spaziali e temporali, immagini traslate di sintesi. Con quest’ultima espressione intendo delle figurazioni che si esauriscono in deformazioni e reinterpretazioni della realtà. Tale processo mentale si muove fra due vincoli che sono il diretto più estremo e la metafora più astrusa; per esplicare ulteriormente è necessario dire di come le immagini create possano essere di due diverse nature: fisse (quindi vere e proprie figure) o in movimento (quindi filmini o video). Questo breve inciso, per introdurre il traslato che spesse volte fa capolino quando incontro l’insultatrice della quale si sta parlando: un’immagine fissa, una vera e propria vignetta dove lei con un ciuccio in bocca, si sta strappando il bavaglino di dosso.

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Immagine CC0 creative commons.

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Perso in questi pensieri non mi sono reso conto d’aver terminato il pranzo; addirittura già lavato i piatti, e mi ritrovo ora faccia a faccia con me stesso, nel bagno, dopo aver innanzitutto, diciamo così, presenziato al consueto appuntamento. Liberato da quel peso che fino a qualche minuto fa gravava sullo stomaco, provo grande rilassatezza, e lo sguardo scivola lentamente dal viso specchiato nello specchio al vuoto più totale, fino a giungere ad una sorta di imbambolamento consenziente dal quale non mi voglio cavare.

Dunque, si fa avanti ora una delle figurazioni di cui dicevo, di quelle più complesse (mi riprometto di rifletterci più tardi, a mente fredda). Rotolo per aria accorgendomi di cadere da una precisa altezza fino a terra, felice per aver abbandonato un oscuro luogo, felice di constatare la grandezza del mondo. Rotolo ancora attraverso fili d’erba fino a giungere su una spianata terrosa dove finalmente trovo pace. Qui mi è concesso percepire su tutto due ingombranti presenze, diversamente ingombranti: da una parte una vischiosa montagnetta che mi sovrasta con la sua preminenza volumetrica sulla cima della quale sorge una mostruosa margherita, dall’altra un piccolo pallino, talmente insignificante da indurmi, dopo aver comunque annotato la sua partecipazione all’immagine, a togliergli gli occhi di dosso.

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Immagine CC0 creative commons.

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Non amo i fiori, ma quello che stava là, a mò di torre o antenna superava davvero ogni limite di decenza, e tale fu l’obbrobrio di quell’enormità sovrastata da quel pessimo fiore, da costringermi ogni tanto a distogliere lo sguardo. Lo sdegno, quantificabile fino a quel momento, non tardò a divenire inquantificabile, tendente a infinito, ed è in questi casi, quando si balza al di là del limite sopportabile, che le condizioni si invertono e che gli estremi potrebbero anche arrivare a toccarsi. Così, dopo aver notato fra le ciglia la veloce crescita di una verdognola capigliatura mi metto comodo a guardare.

Levo lo sguardo su quel cumulo molliccio e su quella margherita senza riuscire più a trovare inappropriata la sua presenza in quest’ambiente; ciò che invece mi sconcerta è il vago sentore del fatto che non riuscirò più a discernere, scegliere, o forse soltanto cambiare visuale, nonostante una sensazione sovrapposta che di tanto in tanto si fa viva richiamandomi, quasi fisicamente, magari ticchettando con le dita fra le ormai prominenti vertebre della mia schiena.

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Un racconto fra Kafka e Lewis Carroll.
Fra geometrie e spazi aperti che, in alcuni frangenti, sembrano non mostrare una via di fuga.
Ma cadere e riscoprirsi, con il dubbio se saremo ancora in grado di "discernere e scegliere"...
È la giusta sintesi di quello che interiormente siamo
Grazie Voiceoff

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