L’uomo nella teca - Un sogno

in #ita6 years ago

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L'urlo di Munch - schizzo

Nella fedele riproduzione di ciò che mi accingo a narrare devo, in prima istanza, fare riferimento a una premessa basilare che per bisogni impellenti legati a chissà quale motivazione non mi è concesso omettere. Si tratta del fatto che mai come in questa volta è capitato di affacciarsi sul piano dell’illogico, del monumentalmente illogico e, questo, come potrete immaginare, urta non senza conseguenze un animo ordinato e rigido come il mio, ben attento a tutti i sillogismi che governano le apparenze illusorie del trascorrere dei giorni. Inoltre, è bene precisare l’inconsistenza del seguente evento narrato (sempre che si tratti di un evento, sempre che sia successo veramente oppure soltanto in un qualche enigmatico sogno) derivata appunto dall’illogicità della questione; in fondo mi chiedo e domando quale possa essere lo scopo dei minuti spesi a scrivere questa robaccia. Ma, tralasciando tutte queste considerazioni passo ora a dire dell’uomo che un giorno mi capitò di trovare rinchiuso dentro una teca di vetro e metallo, senza apparenti motivazioni; di come vi giunsi e delle azioni che fui capace di compiere al suo cospetto, al suo inerme cospetto; delle conseguenze che dovetti affrontare in seguito, poiché forse, in questo modo, vi sarà più semplice capire l’aggrovigliamento della presente premessa.

Tutto ebbe inizio con un flash, niente di più, con la vista di un sub (ma questo lo dico solo per il fatto che si trovava sottacqua, quindi senza elementi che possano garantire la veridicità effettiva del suo ruolo apneistico, per così dire) che avviluppato all’interno di un banco di pescetti rossi (ricordo precisamente il colore) a un certo punto scattò come tarantolato fra di loro, facendoli sparpagliare in tutte le direzioni dell’abisso, forse morso da uno di essi; terribili pescetti rossi ne dedussi, forse velenosi. Lo vidi sbattersi e dibattersi di qua e di là con tutte le proprie forze per tornare in superficie, lo vidi perdersi dieci metri al di sopra della mia posizione, nella luce ormai troppo forte del sole che penetrava fra le trasparenze dell’acqua; essa non mi permise di seguire gli eventi, in un fantastico crescendo che mi costrinse qualche attimo dopo a serrare con impeto le palpebre degli occhi.

Ora, sarebbe ingeneroso da parte vostra chiedermi e chiedervi per quale oscura ragione il successivo luogo in cui mi trovai stava in superficie, in una stanza vuota, con un vuoto totale di memoria che si frappone fra il primo evento e questo secondo che fra non molto conoscerete anche voi. Seppure comprensibile, ingeneroso, comunque in tal caso faccio appello per tentare un abbozzo di risposta, alla premessa e all'illogicità di cui ho già detto, che imperversa funesta e terribile fra le righe di questa insensata riproduzione.

Dicevo della stanza vuota quindi, o quasi, giacché al centro di essa stava una teca che, unico oggetto là in mezzo calamitava tutte le attenzioni di un qualsiasi soggetto osservante. Mi avvicinai furtivo alla stessa e più precisamente a una finestrella di vetro che si apriva sul davanti fra le ferraglie metallifere della struttura, mentre mi accorgevo di tenere fra le mani una fiala contenente un non meglio identificato liquido. Guardai all'interno di dritto e di rovescio fino a notare la presenza di un volto umano immerso nell'acqua (la teca pareva essere una specie di contenitore stagno zeppo di liquido, che in quel momento pensai potesse essere acqua, all'interno del quale fluttuava l’uomo di cui dicevo) e, ancora senza possibilità di riuscire a capire per quale motivo, alzai la mano con la fiala per mostrarla all'uomo sommerso che sconcertato mi guardava. Vidi quindi un ditino che faceva la sua comparsa rinvenendo da sotto fra le bollicine e i flutti che attorniavano il volto di quel personaggio, con la chiara intenzione di farmi notare qualcosa sulla finestrella di vetro. Pensai che forse voleva parlarmi, che forse esisteva un modo, al di là di quello gestuale, per comunicare e, in effetti, sul bordo destro della finestrella, stava quella che scoprii essere una manopola, ma non esattamente una manopola; una specie di rotella che comandava le cifre di un’altra ruota cifrata che ruotava allo scorrere della manopola suddetta. L’indicatore apposito segnava la cifra di 36 e, preso da questo unico e misterioso ingranaggio, macchinario, o chiamatelo come volete, distolsi l’attenzione dall’uomo sommerso concentrandomi sulle cifre: perché 36? Allora, il fanciullo che giace sopito in me e che di tanto in tanto riemerge con tutta la forza di se stesso, soprattutto direi delle proprie mascalzonate, prese il sopravvento annientando le conservative ragioni che di solito spingono a lasciare il mondo come lo si è trovato: nulla fu capace di frenare la frenetica voglia di far ruotare quelle cifre, di farle cambiare.
Noncurante dei gestacci che il personaggio mi rivolgeva (con la coda dell’occhio mi sembra di ricordare che questo vidi) iniziai a ruotare: 48, 102, 16, 39, e via dicendo, felice d’accorgermi della leggerezza di quella rotella e della sua perfetta lubrificazione. Quindi sentii la gioia salire dentro di me, quella incontenibile gioia che sfocia prima o poi in un fragoroso attacco di risate e contorcimenti allegri che trovarono sfogo fino all’attimo in cui sentii un pugno battere con forza dall’interno della finestrella, nell’esatto istante in cui il cifrario (ricordo perfettamente) segnava 148.
Tutta quella gioia si tramutò in un veloce momento in paura, senza che neppure avessi il tempo di prepararmi alla cosa; paura destata dalla vista dei lineamenti di quell'uomo che si lamentava di chissà cosa. Posso dire d’aver visto per la prima volta il dolore, fatto in questo caso persona: lui soffriva, e io avevo paura. La cosa che in quel frastuono di sensazioni pensai fu che magari dovevo portare la rotella di nuovo a 36, stabilire quindi le condizioni iniziali, prima che tutto ciò che ho narrato avvenisse.

Sono quasi giunto alla conclusione di questo resoconto poiché i ricordi ora si perdono in due cose distinte: da una parte l’arrovellamento che provai nella ricerca di quel 36 che, fedele alle solite sorprese che riserba la sorte, era scomparso dal cifrario, risolvendo la cosa in una terribile sensazione di disagio; dall'altra il tramutarsi di questo disagio in un forte senso di reclusione se così si può dire, di come quando ci si sente messi da parte, banditi magari da una comunità, o comunque non facenti parte di un disegno più ampio: esclusi. Quindi ricordo qualche parola che rimane impressa nella memoria, stampata a fuoco: “…per dolosa mancanza di ragion pratica…” . Come termine ultimo, come esemplificazione chiarificatrice del tutto, come giustificazione a chissà quale nefasta sentenza emessa seduta stante verso il sottoscritto; turpe locuzione che affossa la magia di queste righe, o forse soltanto di quei momenti; righe che fecero la loro comparsa (ora lo ricordo) appena riaprii gli occhi, ridestandomi da questo fantasioso sogno e dando luogo a bestemmie varie che non fui capace di soffocare. Robaccia!

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