Dal terreno di proprietà della famiglia di mia madre

in #ita6 years ago

Ogni tanto capita di andare a visitare il terreno di proprietà della famiglia di mia madre, dove mio zio provvede al proprio sostentamento mandando avanti una piccola azienda agropastorale. Se faccio un resoconto delle più recenti visite m’accorgo d’esserci passato soltanto una decina di volte negli ultimi tre anni: deprecabile il fatto, visto che un giorno probabilmente, escludendo tutti i possibili imprevisti, sarò io il proprietario. Adesso che ci penso mi viene in mente l’ultima occasione.

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Foto dell'autore

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Era luglio inoltrato e se mi concentro sento ancora il fastidio che mi procurava nei cuscinetti della mano l’impugnatura del gancio, quel gancio che viene utilizzato per trascinare le balle appena lasciate cadere dall’imballatrice, per farne mucchi e quindi facilitare la seguente raccolta e il successivo trasporto al fienile. Ricordo un frangente del pomeriggio, mentre attendevo il passaggio del trattore dove avrei dovuto caricare l’ultimo mucchio, e non mi sfuggì l’invitante figura che la disposizione dei singoli elementi dello stesso formava: una sorta di poltrona, irresistibile in quei momenti. Seduto da quel punto potevo vedere una bella porzione di campagna e se, quando le mietitrici non hanno ancora compiuto il loro dovere il paesaggio giallastro risulta anche piacevole alla vista, per via del suo nascondere le spigolosità e le irregolarità del terreno, in quel momento appariva assai nudo e spoglio; palesava la sua vera natura e mostrava a tutti quanto fosse arido, sino alle prime avanguardie del paese.

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Foto dell'autore

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Un riflesso del sole sulla carrozzeria della macchina rosso fiammante di mio zio attirò l’attenzione. “La macchina di campagna”, come diceva lui, e non smetteva mai di vantarne le qualità e di raccontare come quella volta o quell’altra ancora l’avesse tirato fuori da pantani di fango o scivolosità di terreni estremamente polverosi. Ma la sequela di aneddoti che egli non poteva fare a meno di narrare ogni qualvolta un qualsiasi passeggero si sedeva a fianco del posto di guida, pronto a farsi scarrozzare, non poteva durare all’infinito: giunse il momento in cui tutto questo cessò.

Era una giornata a cavallo fra gennaio e febbraio di un’annata particolarmente fredda, e più o meno a metà mattinata di quel fatidico giorno, “la macchina di campagna”, forse a causa dei primi scricchiolii di una vecchiaia che per ogni cosa arriva, decretò di concedersi un attimo di riposo. Aveva nevicato tanto quella notte ma lo zio decise comunque di andare ad accudire il bestiame; essenzialmente per il fatto che non riusciva a sopportare l’idea che il suo trabiccolo potesse arenarsi nella neve.
Chissà quanto gli costò quella telefonata, chissà quanto rimuginò in proposito prima di decidersi, fatto sta che verso le dieci di mattina, uno squillo del cellulare mi svegliò quasi di soprassalto; toccò a me andare a recuperarlo, poiché a quei tempi ero l’unica persona di fiducia in possesso d’un fuoristrada che mio zio conoscesse. Cercai di alzarmi, di indossare un paio di jeans e un maglione, il più velocemente possibile, ma non seppi resistere per cinque minuti all’affascinante spettacolo che si presentò agli occhi quando caddero fuori dalla finestra: la piazza sottocasa completamente imbiancata, con un’inquietante striscia accecante e giallognola che la divideva a metà, per via dei giochi di luce solare, dovuti alla mia posizione e alla cristallinità del ghiaccio. Comunque, un quarto d’ora dopo, ero sicuramente in viaggio, e mai prima d’allora mi era capitato di vedere l’altopiano in quelle condizioni: la distesa bianca non lasciava spazio a nient’altro, eccezion fatta per la linearità dei muretti a secco che talvolta riuscivano a rompere la noiosa monotonia di tutto quel candore.

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Quando trovai mio zio imbacuccato alle prese con le intemperie invernali, non esitai un attimo esortandolo a salire per ripartire e tornare in paese. Era meno loquace del solito, diciamo pure che ancora non aveva proferito parola, ma una cosa fu subito chiara: non aveva alcuna intenzione di abbandonare la macchina in quella posizione. Si dava un gran daffare per liberare le ruote dalla neve e imbastì un breve monologo sostenendo che se si trascinava un po’ più in là col fuoristrada, poi si poteva parcheggiare almeno al riparo. Lo lasciai fare, poiché tali monologhi non ammettono repliche, e mentre riflettevo sulla possibilità di dargli una mano o meno, scocciato, aguzzai gli occhi sulle rovine d’un nuraghe più in fondo. Rimaneva l’unica cosa diversa da osservare in mezzo a quel bianco, e faceva da angolo ovest alla proprietà della famiglia di mia madre. Osservai i muretti poi, che correvano via dallo stesso, per perdersi al di là di ciò che potevo scorgere, armonicamente, seguendo il pendio del terreno. Tornai indietro poi, con una seconda occhiata, seguendo la linea dei muri, e dopo aver notato alcune inesattezze che cancellavano l’armonia di prima, arrivai a sbattere nuovamente con lo sguardo sui pietroni del nuraghe. Stava lì, seppur decrepito, seppur rovina e cimelio, ed era l’unica altezza possibile da scorgere nella campagna, se si esclude il campanile del paese, non così disastrato, ma comunque visibile come il nuraghe da quasi tutti i punti del vissuto circostante.

Fu in quell’esatto istante che sentii una tenaglia d’angoscia alla gola, ed ebbi paura. Corsi al volante del fuoristrada sollecitando mio zio a salire; riprendeva a nevicare e non mi sarei stupito se anche le grosse ruote sulle quali facevamo affidamento per il rientro avrebbero ceduto alle lusinghe del ghiaccio.
Seppure in quel momento non potessi calcolare con precisione le probabilità, ero certo che più si tardava, più la mia paura acquistava possibilità di verificarsi, in mezzo a quella che oramai andava assumendo, pareva senza ostacoli alcuni, proporzioni da autentica bufera.

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Siete rientrati senza problema?

ma mica è vero :)))

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