IL CACCIATORE DI FALENE - Capitolo III

in #ita6 years ago

Capitolo III – La recita morbosa







Come i bambini che rincorrono e saltano per catturare le bolle di sapone, mi agitavo nella stanza di instabile silenzio. Mani protese in alto, salti e maledizioni al cielo. Dovevo prenderla, catturarla e stritolarle il carico di notizie che stava portando sicuramente in dote. Io cacciavo la falena, lei cacciava la luce del lampadario. Ognuno ha la sua preda. Ognuno è predatore. Il destino comune nel refolo di secondi che è la vita.
Abbandonai la lotta spossato dalla giornata passata a mettere il punto sulla vita di Antonio e me ne tornai alla scrivania Un click sull’interruttore e il buio invase la stanza col suo velo di nero. E’ una falsa gomma da cancellare il buio. Cancella i tratti alla vista, ma il segno resta.




Una candela ridiede luce alla scrivania lasciando in penombra il resto della stanza.
Una penombra vasta confusa dei mille soprammobili che raccontavano viaggi passati. Sprofondai nella sedia imbottita di gommapiuma e vetustà. Pensavo sempre che avrei dovuto cambiarla, magari con una nuova in pelle con i braccioli morbidi, ma poi non lo facevo per il carico di ricordi che mi trasmetteva ogni volta che mi sedevo. Quelli di mio padre che passava le ore a scrivere i suoi romanzi ed io a guardarlo in silenzio.

Era un palcoscenico la scrivania, con ogni suppellettile a recitare al meglio la sua parte. Anche chi da poco era entrato nella compagnia stabile fatta di matite, penne, graffette e post-it.
Il diario era sotto il fascio diretto della lampada da tavolo come l’attore protagonista della scena investito dall’occhio di bue. La recita morbosa, un monologo incalzante di pressione fatto da un’unica frase. APRIMI!
Non so quanto tempo passò. Rimasi a guardare e ad abbandonarmi alla lotta tra i pensieri schierati.
Il cuoio del rivestimento del diario restituiva i suoi difetti. Quelli che però sono anche i pregi. Un materiale vivo come vive erano le parole che immaginavo fossero scritte. Nero su bianco una danza di lettere. Una convenzione per tradurre i pensieri e imprimerli per sempre. La scrittura è la fotografia della mente. C’è chi legge, molti si vantano di aver letto mille libri, di divorare pagine. Non sanno di essere vampiri. Vampiri di fantasie altrui, di pensieri e idee riposte in fila e punteggiate, come per dare un ordine. Ma la mente è caos. Chi legge è ordine. Allora ricerca il caos, la fuga, la vendetta per quei passi cadenzati che scandiscono giornate uguali.

Io scrivo. Antonio ha scritto. Il dubbio. Non sono un vampiro, vivo il mio caos, lo metto giù in versi e prosa. Perché dovrei cibarmi dei pensieri di Antonio? Perché dovrei?
La notte la passai arrovellandomi. Scrissi molto fino ad avere i crampi alle mani. Erano le 4, forse. Vibrazioni nell’aria. Il fascio di luce che proiettava un’ombra frenetica.
La falena si posò sul lucchetto. Non avevo più voglia di catturarla. Avvicinai lento la mano facendola strisciare sulla scrivania. Lei non volò. Sapeva che non le avrei fatto del male. Non so il perché ma lo sapeva. Il dito ad un millimetro dal lucchetto. Un battito di ali, non sufficiente al volo. Lenta salì sulla mano.
Alzai la mano lentamente fino a portarla davanti agli occhi.
Quale notizia mi riserverai domani?




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