Tre per zero è uguale a tre - Libro Primo - Capitolo II

in #ita6 years ago (edited)

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Oggi volevo proporvi il secondo capitolo del mio nuovo libro "Tre per Zero è uguale a tre".
Ma prima di spiattellarvi il capitolo ci tengo a precisare un paio di cose.

1. LA STORIA SEMBRA BANALE, MA NON LO E'.

Non voglio fare spoiler, ma non giudicate affrettatamente i personaggi. La storia sembra molto banale, ma in realtà non lo è, sia per una questione di epoca storica, scelta non a caso, sia perchè è molto più intricato il tutto.

2. SONO STORIE PER TRE PARTI

Il libro è diviso in tre parti. Quella di Garrincha è la parte I. Le storie sono collegate.

3. E' AUTOBIOGRAFICA?

Ni. Solo alcune parti del capitolo uno. Il resto è fantasia.

Detto questo eccovi il secondo capitolo.

CAP II - QUESTIONE DI MINUTI

Furono due ore piuttosto lunghe, quelle che separavano Garrincha dalla fine della giornata scolastica. Furono ancora più lunghe, considerato il peso dell’attesa che Garrincha si portava addosso.
Finite le lezioni il ragazzo ripose frettolosamente le sue cose nello zainetto, non prima di aver accuratamente cancellato il biglietto dell’autobus usato poche ore prima. In quelle stesse ore, il suo cellulare Bosh, del peso di 580 grammi, ancora non dava segni di alcun messaggio.

«Dimmi te se dopo che ho fatto tutto quel casino questa ancora non mi scrive qualcosa».

Per voi che non lo sapete, il bosh era uno dei primi cellulari che circolavano in quel periodo.
Grande più di un telecomando, con lo schermo che permetteva la visualizzazione del solo operatore e del credito residuo, perennemente a poche lire o euro, essendo il periodo del passaggio alla moneta unica, obbligava il portatore a dotarsi di pantaloni muniti di tasconi laterali o, nella maggior parte dei casi, di portarlo a mano o nello zaino.
Garrincha lo aveva ereditato dal padre, il quale avrebbe voluto buttarlo una volta comprato un motorola startac. Ma gettare via un simile oggetto sarebbe stato peccato mortale, non tanto per la sua funzione di cellulare, quanto per la sua capacità di intercettare chiamate.
Non tutti lo sanno, o non lo sapevano, ma bastava inserire una striscia di alluminio nei contatti della batteria, ed il bosh riusciva, tramite un codice apposito da digitare al posto del pin, ad intercettare tutte le chiamate del circondario.
E Garrincha amava passare i pomeriggi ad ascoltare le chiamate che circolavano dalle sue parti. Quasi tutte di amanti che si chiamavano all’insaputa dei rispettivi partner.
D’altronde il nostro eroe era perennemente squattrinato, ed il suo budget gli permetteva di inviare al massimo tre sms al giorno, per cui doveva dare un senso ai 580 grammi che si portava dietro.

«Comunque non si sta regolando, almeno scrivere grazie…» pensò tra se e se, mentre scendeva le scale dell’istituto scolastico, per poi avviarsi verso piazza Bologna, dove si appostava alla fermata del 309, unico mezzo capace di riportarlo a casa.
Era visibilmente abbattuto il ragazzo, e sinceramente non so se mi facesse più pena o tristezza quella scena. So solo che il viaggio di ritorno gli permetteva di fare lunghe riflessioni tra se.
Spesso più che lunghe riflessioni erano dei discorsi senza filo logico su qualsiasi cosa vedeva passare sotto i suoi occhi. Ma quel giorno tutti i suoi pensieri erano concentrati su quella scenetta al Tasso e su quel citofono che si portava dietro e che non dava segni di vita.

«Ora basta le scrivo. No dai sembra da sfigati. E poi che le scrivo? “Ti è piaciuta la sorpresa?” Nahh, altro che sfigato, sembrerei un disperato».

Garrincha teneva in mano quel mezzo chilo di tecnologia, mentre i rumori di una città mai sua rendevano muti le melodie di una natura ormai sconfitta tra le colate di cemento che oscuravano il cielo. Ma quel mezzo tecnologico, creato per annullare distanze, era ora indicatore di fallimento.
O almeno così la pensava il ragazzo, che non solo era disperato, ma era quel tipo di disperato pure parecchio impaziente, incapace di immaginare un mondo che non ce l’avesse con lui.

«Basta le scrivo. Dunque… “Ciao, spero ti sia piaciuta la sorpresa, ora sto tornando a casa, te che fai oggi? Se ti va ci sentiamo più tardi, mi trovi a casa, rispondo io non ti preoccupare, un bacio”. No cazzo, è troppo lungo, sfora.»

Il messaggio così impostato superava i caratteri consentiti per un solo invio, costringendo l’utente ad inviarne due contemporaneamente, e questo significava aver praticamente esaurito tutti i messaggi consentiti in una giornata.

«Allora, vediamo come posso accorciare… “Ciao, piaciuta sorpr? Sto torn casa, ci sent + tardi sul tel di casa? cmq risp io. :*” Ecco così dovrebbe andare».

Non erano geroglifici, ma abbreviare le parole era l’unico modo di non arricchire l’operatore telefonico in un mondo in cui rientrare nei sessanta caratteri era fondamentale per le proprie tasche. Poi vallo a spiegare ai genitori che i figli non scrivevano come deficienti per moda, ma per necessità.

«Invio, e che qualcuno me la mandi buona».

Garrincha era alla fermata dell’autobus. Le persone scivolavano davanti a lui, intente a racchiudere nei loro gesti la concentrazione della vita che scorre. Attendere un segnale da qualcuno quando più di uno passa e ti osserva, in attesa di un segnale tuo. Il paradosso di Bosh potremmo chiamarlo.
Nel frattempo il piede nervosamente iniziò a battere per terra, andando a tempo con chissà che cosa. Il ragazzo fissava per in giù, senza guardare precisamente niente in particolare, e solo ogni tanto si concentrava sul cellulare, finché nel suo campo visivo, limitato a quella scatoletta nera, entrarono due polacchine marroni.

«Capellone il tuo battito di piede è alquanto irritante per chi ti passa accanto».

Garrincha alzò lo sguardo ed incontrò quello serio del professore, nascosto dai suoi occhiali anni ’70. O vintage che dir si voglia.

«Ah, che ci fa qui? Comunque belle quelle polacchine» rispose il giovane dall’alto della sua ironia derivata dal possesso di un paio di “Converse” rovinate.

«Si chiamano “Desert boots” se proprio si vuole essere precisi. E comunque non si crucci più di tanto, passavo per caso. Ah, dimenticavo, tempo ventidue minuti, secondo più, secondo meno, e avrà la risposta che aspetta. Buon proseguimento con i suoi piedi.» E si allontanò, soddisfatto e tronfio. A ragion veduta però.

«Ma questo sta fulminato! » pensò quel ragazzo etichettando quella frase come una sparata senza senso.
Eppure cosa possono essere ventidue minuti, secondo più o secondo meno, nella testa di un adolescente? Possono essere il tempo di un sogno, oppure il ricordo di uno sguardo. Difficilmente il tempo di un amplesso. Per Garrincha furono il tempo di un viaggio verso casa e di una attesa spasmodica che si rivelò veritiera. Passarono esattamente ventidue, ed il blocco plastico si rianimò.

“Ciao! Avevo il cellulare spento, è stato un pensiero dolcissimo, ci sent dopo :* ».

«Mi ama!!! No dai stai calmo, però sicuramente si innamora di me, non può resistermi. Le do tre mesi, massimo quattro. Certo saremmo proprio una bella coppia noi due. Si mi ci vedo anche nelle foto di famiglia, o al matrimonio, oddio sarebbe davvero bella, porco cazzo se non lo sarebbe!» Garrincha era partito. Aveva preso il volo, e non avrei potuto riportarlo a terra neanche volendolo.

«E ora? Oddio che le rispondo. Oddio le rispondo? Mi rimane solo un messaggio per oggi, come me lo gioco? Cazzo, cazzo, cazzo!!!!!»

Mentre ragionava su quanti cazzo potesse racchiudere, almeno potenzialmente, una sua frase, si era avveduto che si trovava sopra al bus che aveva preso in maniera quasi automatica, mentre organizzava il suo matrimonio e relativa vita coniugale con la sua amata.

«Ma quando ci sono salito?» si chiese, mentre notò che più di una persona lo fissava.

«Vabbè, meglio farmi un pò i cazzi miei fino a casa, così loro si fanno i loro» si disse.

Non si era accorto che anche io lo stavo fissando. Avrei voluto spiegargli che in quel momento, e in molti altri della giornata, quelle persone non solo non lo stavano fissando, ma che non stavano proprio vivendo. Ma vallo a spiegare ad un adolescente come Garrincha cosa è la mancanza di voglia di vivere.
Spesso la madre gli rimproverava di essere giù, di essere privo di vitalità. Ma non era mancanza di voglia di vivere, bensì l'esatto apposto. A volte la troppa voglia di vivere, se non correttamente sfogata, generava in lui un senso di angoscia profonda.
Come quando hai la vescica piena e ti ritrovi in mezzo al traffico. La voglia di scendere e farla lì, tra una berlina ed un furgone, è tanta, ma alla fine resisti fino al primo bar disponibile. Ecco, forse ogni tanto bisognerebbe solo avere il coraggio di scendere dall'automobile, specie se è ferma in attesa al semaforo per dire, e pisciare liberamente sulla ruota posteriore, un pò come fanno i cani. Li vedo così contenti a far incazzare i proprietari delle auto appena battezzate. Pensandoci bene però Garrincha manco riusciva a farla negli orinatoi dell’autogrill, e l’ipotesi di farsela addosso sarebbe stata meno imbarazzante di farla per strada.
Fortunatamente per lui, ad ogni modo, il percorso per tornare a casa era piuttosto breve, e poté scrollarsi dopo pochi minuti quella sensazione da animale da circo che sentiva.

«Cazzo si guarda la gente dico io, compratevi un libro, almeno vi imparate qualcosa» bofonchiò scendendo dall’autobus.

Poi blaterò qualche altra cosa, prese in mano il cellulare, e si concentrò di nuovo su quel messaggio che gli aveva stravolto la giornata. Mentre mi allontanavo seduto sul sedile dell’autobus rimanevo abbagliato da quanto sia facile ad una certa età amare qualcosa che ancora non sai cos’è.

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Tutte le foto sono di mia proprietà

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Vey nice your post

Questa storia su Garrincha mi intriga sempre più. Divertente il viaggio mentale che si fa appena la ragazza gli risponde, quello classico che ti fai le prime volte che ti piace qualcuno.
Aspetto un nuovo post! Bravo! 😄

Mi piace come riesci a delineare un'epoca, con i suoi costumi, le sue regole sociali e le sue tipologie umane. Aspetto il seguito!

hai colto il primo spunto! Grazie!

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