"Tre per zero è uguale a tre", libro I, Capitolo X

in #ita6 years ago (edited)

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foto di mia proprietà

CAP X: Alla ricerca di un nome

La domanda continuava a rimbalzare nella testa del giovane: chi diavolo è il professore? Rimbalzava mentre giocava a calcio, mentre era a scuola, mentre pranzava o cenava, mentre era con Bianca tentando di infilare le mani nei pantaloni. Era ormai ossessionato. Una pena unica, considerando il bello che si stava perdendo. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di solitudine è che ci sono tanti motivi per lamentarsi e per essere tristi. Ma ho anche imparato che fermandoci un attimo e a guardandoci attorno ci potremmo rendere conto che in fondo siamo davvero fortunati a poterlo ancora scrivere. Ecco forse fermarsi è la cosa più complicata da fare. Ma vallo a dire a un adolescente convinto di aver ragione di tutto. Da vecchi certe cose sono più automatiche, sarà la dannata rassegnazione di aver poco tempo e di dover capire troppe cose ancora.
Tornando al giovane, dopo quel fallimento di missione la situazione si era aggravata: non sapeva chi era il professore, il primo semestre era passato con dei voti da far così schifo che il padre gli aveva tagliato la già misera paghetta; Bianca era sempre più bella, ma sempre inarrivabile nelle zone più intime, così da rendere sempre più tesi i nervi di Garrincha ad ogni incontro, nonostante il sorriso spastico che mostrava. E dulcis in fundo, Balbo doveva reclamare un favore.
Come poteva fermarsi uno combinato così? Doveva agire su ben quattro fronti, e gli ormoni rendevano il tutto più complicato. Ah quanti bei ricordi, quante belle sensazioni quei giorni, la scuola, un mondo così distante ormai. Ad ogni modo come dicevo, era ossessionato. Talmente ossessionato, che riusciva ad assecondare ogni cosa, lui direbbe stronzata ad essere precisi, che il professore diceva.
Eravamo arrivati ormai a febbraio. Quattro mesi erano passati. Quattro mesi in cui il professore continuava a punzecchiarlo, ma aveva limitato la sua capacità di preveggenza, nel senso che non dava più delle piccole previsioni al ragazzo. Non si azzardava ad addentrarsi nel reticolato di teorie e supposizioni che era sospeso nella testa del giovane, non si azzardava ad alimentarne le ragioni. Ma Garrincha non era tipo da stare fermo. Non era tipo da aspettare che passassero una o due ore ad ascoltare un suo acerrimo nemico pavoneggiarsi e parlare. Non era tipo da farsi sfidare senza accettare la sfida.
Così il giovane decise di passare al contrattacco. Aveva pensato innanzitutto di scoprire il nome del professore. «Se non posso sapere dove abiti, dovrai firmare le presenze da qualche parte, maledetto professore del cazzo» pensò il ragazzo una mattina a scuola. Così pianificò una penetrazione nella sala dei professori al termine delle lezioni. Più precisamente in un pomeriggio in cui si sarebbe tenuto il torneo di calcio scolastico e quindi non avrebbe destato sospetti la sua presenza oltre l’orario di scuola. Non era l’unica penetrazione che pianificava in realtà. Come detto da ben tre mesi le aveva provate tutte con Bianca, la quale era più sicura di Fort Knox. Ma questo pensiero era ora secondario rispetto all’identità del professore, anche perché un mese di pippe in più o uno in meno poco gli cambiava.
Arrivò il giorno della partita. Garrincha aveva deciso che avrebbe agito durante l’intervallo, adducendo la scusa di un attacco di diarrea fulminante. Avrebbe avuto un quarto d’ora per operare.

«Dovrebbero bastarmi cinque minuti, ma mi tengo largo, meglio.» pensò.

Così dopo scuola si fermò per fare un rapido pranzo, due chiacchiere con i compagni di squadra, tra cui uno era Scintilla ed uno il Cina, poi cambio d’abito e sul campo. I primi quarantacinque minuti passarono rapidi, tra tackle, contrasti, tiri e corse su quel campo di terra che non ammetteva errori: una caduta di striscio e due settimane di tagli su una gamba. Il calcio duro, il calcio da uomini, pensavano i ragazzi che ancora non avevano preso schiaffi dalla vita. A fine primo tempo Garrincha era pronto a scattare per mettere in pratica il suo piano. Il primo tempo era finito 3 a 2 per gli avversari. Il capitano della squadra, che era Scintilla provò a motivare i ragazzi con le solite frasi del cazzo.

“Dobbiamo mettercela tutta”; “forza che gli rompiamo il culo» e via dicendo. Il giovane ascoltava e provò più volte a svicolare, ma veniva sempre richiamato «Aò ma do vai? Sto finendo!». E invece Scintilla non finiva mai, perché vedeva che il suo discorso non valeva proprio un cazzo. Passarono un paio di minuti, diventarono cinque, poi sette.

«Ora basta» pensò Garrincha «Sentite imbecilli del cazzo, qua stanno tutti salendo sul carro del vincitore, tutti a fare il tifo per il terzo scientifico. Ecco mettiamola così: c’è chi sale sul cazzo dei vincitori e chi si allena per superarlo in corsa. Iniziamo a far vedere quanto cazzo possiamo correre. A dopo, mi sto cagando addosso.» e scattò di corsa mentre i ragazzi, nonostante l’ultima frase, erano stati caricati a dovere, tanto da cacciare un urlo ed uscire dallo spogliatoio dando i calci alle porte.

Nel frattempo Garrincha era arrivato alle scale. Le salì a due a due fino al primo piano, dove era l’aula professori. Non poteva farsi vedere, essendo in pantaloncini e sporco di terra. Si appostò dietro ogni angolo prima di attraversare un corridoio, e quando lo faceva correva alla massima velocità. Ne aveva quattro da attraversare. I primi due furono piuttosto semplici. Il terzo era vigilato dal custode. Poteva anche salutarlo e far finta di andare ai bagni, ma ce ne erano molti prima di quel punto, e non avrebbe potuto giustificare la scelta di quelli più lontani dal campo. Così decise per la soluzione più complicata, ma anche la più fottutamente cinematografica: la scivolata di potenza.
In cosa consisteva la scivolata di potenza è molto semplice da spiegare. Rincorsa, salto e atterraggio sulle ginocchia scivolando per due o tre metri rasi al suolo. Questo avrebbe permesso al ragazzo di passare sotto la guardiola, che era rivolta verso l’ingresso principale della scuola. Il solo problema era il rumore della corsa. Gli scarpini erano troppo rumorosi. Doveva farlo scalzo. E vi assicuro che lo fece scalzo, ero lì, non vi sto raccontando cazzate.
Si tolse così gli scarpini, rimanendo con i calzettoni da calcio. Se li legò al collo. Ma decise prima di provarne una nel corridoio vuoto.
Fece uno scatto immediato. Vetri metri, poi dieci, poi cinque, salto!

«Cazzo cazzo cazzo scivolata di potenza!»

Atterraggio su ginocchia e giù scivolando per tre metri.

«Porco cazzo!!!! Che cazzo di fenomeno!» pensò appena atterrato. Ma nei tre metri successivi le ginocchia andarono in fiamme al contatto con quel pavimento di linoleum capace di fondere anche una lastra di acciaio, a voler esagerare.

«Porco cazzo che dolore atroce!»

Garrincha ci era riuscito. Era stato davvero in gamba. Non ci credeva né lui, né figuriamoci io. Ma il prezzo era stato troppo alto, e non era ipotizzabile un’altra scivolata di potenza. Ora poteva puntare l’aula professori, e svelare il mistero del nome del professore, e da lì risolvere tutti gli altri, ma tra lui e la soluzione dell’enigma c’era una guardiola superabile solo con la scivolata di potenza.

«Che cazzo faccio, che cazzo faccio! Un’altra così e chi gioca il secondo tempo! Ma perché cazzo ho fatto una prova!»
pensava impazzito nell’androne delle scale che separava i due corridoi.

«Ah ma sei qui! L’hai fatta tutta?»

Una voce alle spalle di Garrincha lo raddrizzò di colpo immobilizzandolo in silenzio. Una voce meravigliosa e familiare, che lo fece girare di scatto.

«Bianca!?! Che ci fai qui!» disse il giovane con gli occhi sbarrati e la bocca tremante dallo stupore.

«Volevo vederti giocare!» disse con un enorme sorriso «Ma arrivata al campo i ragazzi mi hanno detto che avevi problemi di, come dire, cacca!» concluse ridacchiando.

«Ahhhhh, ma no era una scusa!» rispose il giovane passandosi la mano nei capelli emozionato.

«Una scusa? Comunque lo sai che in calzoncini sei ancora più carino?» disse lei con quel poco di malizia che bastava a scatenare le più disparate reazioni nel ragazzo che si trovava di fronte.

«Si? Te invece sei sempre bellissima.» ribatté lui, per poi darle un bacio che era nell’aria da qualche minuto.

«Già finito?» fece lei, vedendo che però Garrincha si staccò prima del solito.

«Piccola ascolta, io devo fare una cosa. Ho pochi minuti, mi devo sbrigare.» disse abbassando il tono della voce.

«Perchè parli piano? E poi di cosa parli?» rispose lei abbassando di riflesso la voce.

«La scusa di andare al bagno l’ho detta semplicemente perché devo andare in sala professori»

«A fare che?»

«A scoprire chi è il professore misterioso.»

«Ma quello che avevo io alla occupazione?»

«Si proprio lui!»

«Ma lo sai che non è venuto più a fare supplenza? Solo quel giorno, e nessuno sa come si chiama neanche da me!»

«Ecco vedi? Non è normale! Voglio sapere chi è!»

Bianca notò un misto di curiosità ed eccitazione nel fidanzatino, tale da farsi contagiare quel poco che bastava per scrollarsi l’immagine di vergine delle rocce con cui veniva trattata dal giovane.

«Ok, scopriamo chi è!»

«Eh? Io e te?»

«E chi sennò? Dai che devi tornare in campo! Sbrighiamoci»

«Ok, ok. Allora ascolta il piano. Io devo arrivare oltre quel gabbiotto» fece il ragazzo sporgendosi insieme alla compagna dall’angolo. «Volevo correre e poi scivolare sotto senza farmi vedere, ma è troppo rischioso». Che bugiardo. Era solo che si sarebbe fritto le ginocchia. «Dobbiamo trovare un modo per passare.»

«Tutto qui? Guarda come si fa» rispose lei avviandosi verso il gabbiotto ammiccando al giovane rimasto fermo a guardare.

«Salve mi scusi, posso avere informazioni?» fece Bianca al segretario della scuola.

Garrincha la guardava estasiato. «Certo! Ovvio! Lei lo distrae! Io passo!» pensò il ragazzo mentre si avvicinava furtivamente. Arrivato a dieci metri si fermò di colpo. La ragazza aveva fatto segno con la mano di aspettare. Poi con una scusa aveva fatto controllare al segretario delle scartoffie e appena questi iniziò a cercare nello schedario che si trovava in basso sulla destra, lei gli fece il cenno di correre dietro a lei.
Garrincha fece uno scatto, pur mantenendosi il più basso possibile, fino a superare la guardiola e trovarsi oltre il corridoio. Lanciò uno sguardo di gratitudine alla fidanzatina che rimase concentrata a fare domande.

«Cazzo, ma che rimane lì pure per farmi sgattaiolare via? Ma è una cazzo di spia russa!» si disse sottovoce mentre andava verso la sala furtivo come solo Splinter Cell poteva insegnare a quei tempi.

Arrivato alla porta designata, Garrincha lanciò un’ultima occhiata al corridoio prima di premere il pomello ed entrare.
«Tre, due, uno, via!» e “sbammmm”! Il cretino non si era accorto che la porta era ancora chiusa e aveva dato una nasata dritto per dritto sul legno. Diamine che sbadataggine, al solo ripensarci mi vergogno di un tale modo di essere.

«Porco cazzo che dolore!» disse mentre guardava la serratura. «E mo come cazzo la apro!» Aveva più o meno due o tre minuti, e già erano pochi per cercare un qualche elenco in cui spuntasse il nome del professore.

«Porco il grandissimo cazzo, che faccio!» continuò ad imprecare tra se e se. Poi il colpo di genio. La scheda prepagata per le cabine telefoniche. Si il ragazzo era sbadato, ma era un malato di film, oltre che di calcio, e aveva visto in qualche pellicola come si poteva far scattare una porta con una semplice scheda telefonica. Il problema era che, e torniamo alla questione sbadataggine, lui si trovava in pantaloncini. E se ne era accorto appena si era portato la mano ad altezza gamba per prendere il portafoglio.

«Cazzo.» disse a voce sommessa. E si accasciò a terra di fronte la porta.

Un pezzo di legno tra lui e una identità. Un pezzo di legno. Rimase li a guardare la porta per qualche secondo. Poi si alzò lentamente lasciando scivolare la schiena sulle mura del corridoio. Fino a quando colpì con la testa un oggetto spigoloso dal rumore di legno e vetro.

«Che cazzo…» fece girandosi per guardare cosa aveva tamponato.

«Ma… Si cazzo!!!!!! Si!!!!!»

Garrincha non se ne era accorto, ma dietro di lui c’era la vetrina con le circolari per i professori, ed una di quelle aveva ad oggetto il professore appunto.

«Alla cortese attenzione… si si, bla bla bla, bla bla bla… Ah ecco: il professor Arturo C. Doille! Ma che cazzo di nome è Arturo! Ahahahaahahahahahaahhaa. Arturo si chiama quel maledetto! Arturo!»

Era al settimo cielo. Corse per il corridoio correndo anche davanti alla guardiola urlando «Si chiama Arturo!» e guardando Bianca che prima lo guardò basito, poi sorrise e corse via dietro di lui salutando con un semplice “arrivederci” il segretario che non aveva ben capito cosa era successo.

«Si chiama Arturo! Hai capito? Arturo!» disse il ragazzo correndo per le scale avviandosi verso il campo.

«Si ho capito!» rispose lei ridendo e correndogli dietro.

«E’ solo merito tuo! Lo sai?» continuò lui.

«Grazie!» replicò lei.

Poi a pochi metri dall’ingresso del campo, Garrincha si fermò di colpo, aspettò di avere a tiro Bianca, la prese e le diede uno di quei baci che ti fanno prendere talmente tanti punti con una ragazza, che puoi andare a giocare alla playstation per un mese di fila con gli amici.

«Grazie amore mio, grazie!» e scappò dentro al campo, dove gli altri lo stavano attendendo.
Bianca rimase ferma di stucco. In quel momento non la stavo guardando, ero troppo impegnato sul campo. Ma ecco, ora si, ora la guardavo. La guardavo mentre gli occhi si facevano lucidi e si avviava lentamente sulla tribuna.

«Non mi aveva mai detto amore.» ripeté qualche volta, sorridendo impacciata, stavolta lei si, non lui che aveva appena involontariamente tenuto uno dei comportamenti più desiderati da una donna.

«Mi ha detto amore…»

Garrincha era già intento a rincorrere il pallone, mentre Bianca si accomodava sugli spalti. Forse la sua presenza, forse la missione andata a buon fine, fatto sta che Garrincha siglò il pareggio ed il sorpasso, e quella partita fini cinque a tre a favore della sua squadra.

Finita la partita il ragazzo era sporco di terra e sudato da far schifo. Ma nonostante tutto Bianca gli corse incontro saltandogli in braccio per stampargli uno di quei baci che te lo ricordi pure da vecchio.

«Andiamo a casa?» disse lui, sorridendo e felice.

«Si, ma non ognuno a casa sua.» rispose lei.

«In che senso?»

«Nel senso che ho casa libera, e ho voglia di fare l’amore con te»

Già. L’amore. Che va oltre il tempo. Oltre la fisica. Oltre a tutte le pippe mentali che si era fatto Garrincha, e oltre ogni sua previsione. L’amore che oggi c’era, che oggi avrebbe finalmente esplorato. L’amore romantico, che chi cazzo se lo ricorda più che vuol dire. Che non puoi spiegare se non con la sua mancanza, perché se l’amore c’è sai benissimo cosa è. Li riguardavo, e provavo a sentire quelle sensazioni, un tempo mie in fondo. Eppure niente di niente, neanche un pò mi era rimasto. Che poi forse è anche la normale conseguenza dei fatti, in fondo non credo che le cose fossero andate esattamente così. Altrimenti non sarei stato qui.

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