Come diventare un musicista di successo (CDUMDS). Capitolo 2steemCreated with Sketch.

in #ita7 years ago (edited)

Nel ridente paesino che mi ha dato i natali, non c’era un granchè da fare. Gli adulti tra discoteche, pub, piazze gremite di gente, avevano una scelta piuttosto povera.
La droga, quella c’era, a sentire mia madre almeno. E sempre secondo lei tanta, tantissima. La raccomandazione principale era: “Non prendere niente dagli sconosciuti, perché ti danno la droga”.
A quello che sapeva lei, di droga ce n’era talmente tanta che la regalavano a tutti, perfino ai ragazzini. E la mettevano nelle caramelle, nei francobolli, dappertutto.
Considerando questo traffico così imponente, sono stato davvero fortunato a non averne mai ricevuta in dono.
Il terrore, quando davvero mi veniva chiesto se volessi una caramella, ne vogliamo parlare? Perché siamo onesti, a un bambino “vuoi una caramella” si dice, si deve dire!
Ma io ho sempre detto un secco “NO”, proprio come mi ha insegnato mia madre.
Il problema è che negli anni 80, le caramelle come la droga, scorrevano a fiumi. Le Rossana erano dappertutto.
Era consuetudine che le signore (a me sconosciute, ma magari amiche di mia madre) le portassero nelle borsette, e altrettanta consuetudine, era il gesto gentile verso un bimbo, di offrirgliele.
Tieniti la tua caramella con la droga, sconosciuta amica di mia madre: io non la prenderò!

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Tolta questa piaga, dicevamo, non c’era molto da fare. Gli adolescenti, i giovani, potevano contare su un paio di posti di ritrovo. Pub, birrerie. Saltuariamente aprivano un locale nuovo, sulla carta una discoteca all’avanguardia, nella realtà una sala da ballo, una balera. Come ultima scelta, ma la più frequente, c’erano la piazza e il corso.
Per i bambini, le cose non erano molto diverse. Il centro città aveva un parchetto giochi, ma il centro città poteva essere raggiunto solo accompagnato da qualche adulto. Mi ci dovevano portare.
Il quartiere dove vivevo io invece, non aveva praticamente niente. C’era un circolo anziani con il campo di bocce, un tabaccaio, un barbiere, e un alimentari.
All’epoca, le strade del quartiere erano praticamente deserte, anche sulla strada principale non c’era una massiccia presenza di auto. Muoversi tra la casa di un bambino ed un altro perciò, era ragionevolmente sicuro, gironzolare nel quartiere da soli largamente concesso.
Ci si arrangiava a fare quel che si poteva.
Con gli occhi di adesso, di adulto che guarda i bambini circondati da ogni comfort, dico “ci si arrangiava”, perché rispetto ad oggi non avevamo niente.
La mia infanzia era fatta di avventure, di scoperte, e di piccole gioie quotidiane non dovute a oggetti inanimati. Eravamo spontanei, perché non avendo i parchi gioco e i giochi che giocavano al posto nostro, i giochi ce li dovevamo inventare. Ogni angolo dei nostri piccoli cortili, ogni campo del vicino coltivato o no, era lo scenario adatto per le nostre guerre, per le nostre interminabili partite a calcetto, e per le nostre azzuffate da buoni amici. Ho passato la mia infanzia pensando di non avere nulla, e invece ho vissuto il periodo più ricco della mia vita.

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Io, Simone e Marco eravamo una comitiva molto affiatata. Un po’ perché avevamo solo qualche mese di differenza di età, un po’ perché eravamo vicini di casa. Non perdevamo un momento per stare insieme, e mia madre per questo mi odiava.
Simone abitava nella casa affianco alla mia, viveva con me molto più di quanto io vivessi con lui. La sua presenza tra le nostre quattro mura era quotidiana, costante, durante tutto l’anno. Eravamo stati compagni d’asilo, e ora compagni di banco alle elementari.
Sua mamma era la proprietaria dell’alimentari del quartiere, suo padre…boh. Lui, comunque, era molto libero, molto più di me almeno. Gironzolava tutto il giorno, e passava gran parte del tempo con me a casa mia. D’estate, senza scuola e praticamente senza compiti, veniva prestissimo al mattino per guardare i cartoni insieme, e se ne andava solo quando sentiva la madre chiamarlo a gran voce dal balcone.
Marco era un po’ più discreto, riservato. Anch’egli era stato nostro compagno d’asilo, ora era nella nostra classe, ma aveva regole e orari più delineati. Ci si incontrava solo per un po’ di tempo nel pomeriggio, finiti i compiti.
Lui, inoltre, abitava a 300 metri da me e Simone: a 6 anni le nostre case sembravano lontanissime!

Sistematicamente, nei torridi pomeriggi di Agosto a casa eravamo io e mia madre. Talvolta c’era anche mio fratello Fabio, anche se nei periodi di tranquillità scolastica ne approfittava per farsi lunghi giri in bici o vedere qualche amico.
Subito dopo pranzo, quando il sole batte a picco e rende rovente tutto ciò che incontra, mia madre andava a rifuggiarsi al fresco nella stanza di casa esposta a nord.
Il caldo soffocante, la tranquillità del post-pranzo, l’impossibilità nel fare qualsiasi cosa fuori casa, e un briciolo di stanchezza dalle faccende mattutine, erano macigni sulle palpebre della povera donna, che si chiudevano inesorabili davanti la tv.
Qualche minuto seduta su una sedia, si rilassava, si lasciava andare, e inevitabilmente la testa le cadeva in avanti.
A quel punto apriva gli occhi, mi guardava, e dopo mezzo secondo di riflessione pronunciava la fatidica frase: -“Dai andiamoci a sdraiare sul letto”-
Nooooooo!!!! Dormire? Di giorno? Ma siamo matti? Io avevo un miliardo di progetti, di impegni, non potevo perdere tempo a dormire! Subito dopo pranzo c’erano i cartoni più belli, parliamo di titoli del calibro di “Holly e Benji”, mica bazzecole. E poi c’era Simone, che mi aspettava per giocare ad “indovina chi”, o a qualsiasi altra cosa. Tutto era più interessante che dormire.
Mia madre però aveva sonno, e non voleva avere il pensiero di lasciarmi in giro a fare danni. Dovevo andare con lei, e stare nel lettone.
Non mi ribellavo nemmeno, frignare non sarebbe servito a niente. Avevo sei anni, ma avevo i miei mezzi.
I bambini sfruttano talmente tanto l’immaginazione, che se avessero qualche competenza scientifica, potrebbero trovare la soluzione a molti problemi dell’umanità. I piani che le loro piccole menti riescono ad elaborare sono davvero perfidi, ma su una cosa primeggiano insuperabili: la messinscena.
Già nei primi secondi di vita un bimbo finge. Gli esperti dicono che il pianto sia l’unico modo che hanno di comunicare, ma io che di neonati ne ho visti, ritengo che sappiano già come funziona il mondo e ci fanno capire chi comanda. Comportandosi in un certo modo, l’adulto risponde in un altro.
Se ha fame piange, e l’adulto gli da da mangiare.
Se ha un dolorino piange, e l’adulto gli fa le coccole.
Se ha un capriccio piange, e viene preso in braccio.
Se non vuole fare una cosa piange..e ottiene quello che vuole.
Fingendo un malessere, tiene sotto scacco chiunque.
Che carini i bambini, come si fa a non adorarli?
Parlo così, perché sotto sotto sto descrivendo me stesso. Io non ero da meno. Fingevo.
Seguivo mia madre sommessamente, lei si metteva sul letto con gli occhi gonfi di sonno, ed io mi sdraiavo al suo fianco. Lei voleva solo riposare, io solo fuggire il prima possibile.
Da buona madre, il pensiero principale era assicurarsi che il figlio fosse li, sereno, e addomentato, altrimenti non sarebbe riuscita a riposare.
Per velocizzare la pratica, la accontentavo mettendo in scena la mia parte pochi secondi dopo esserci messi a letto.
Mi voltavo verso di lei, socchiudevo gli occhi lasciando una minima fessura aperta, che mi permetteva di monitorare il suo appisolamento (volgarmente detto abbiocco). Rallentavo il respiro, respiravo profondamente e lentamente, ed ero fermo, immobile, rilassato. Un angioletto.
Mia madre a quel punto si rilassava e si lasciava andare, e si addormentava sul serio.
Appena il suo respiro diventava più pesante, era fatta. Aprivo gli occhi, un ultimo sguardo ad assicurarmi che fosse nel mondo dei sogni, e come un giovanissimo Diabolik, senza alcun rumore sgattaiolavo giù dal letto, e via di sotto a giocare. Da solo o con Simone, non faceva differenza.
Ogni risveglio, la povera donna subiva un trauma: apriva gli occhi e io non c’ero. Credo che in quell’attimo immaginasse rapimenti, morti violente, o incontri ravvicinati del terzo tipo.
Agitata si guardava intorno, in casa o dalla finestra. Quando mi scorgeva, mi urlava un po’ di maledizioni, e sconfitta si rassegnava a restare in santa pace ancora qualche minuto.
Succedeva sempre, tutte le sante volte.
Raccontiamo queste mie fughe pomeridiane ancora oggi, ridendoci su.
In fondo ero un bravo bambino: un pochino vivace, ma altrimenti che rockstar sarei potuto diventare?

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[immagini di libero utilizzo tratte da pixabay]

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