I Playmaker di una volta

Il basket contemporaneo è cosi preso dalle statistiche, dalla velocità e dal susseguirsi di superuomini in canotta che a volte perde di vista il ruolo classico e intramontabile del playmaker, quei piccoletti che andavano in giro per il campo coi calzini alle caviglie a dispensare assist mirabolanti ai compagni tiratori per metterli nelle migliori condizioni possibili per mandare la palla a canestro.

Chi non ricorda le imprese di John Stockton? Assistman da record in quel di Salt Lake City, non vinse nulla in quella straordinaria Utah Jazz che vide nel binomio Stockton - Malone una delle coppie più irrefrenabili della storia della NBA. Passaggi in ritmo, lanci in equilibrio precario, illuminazioni da fare invidia a mille neon in una stanza, perle rare distribuite nel corso di una carriera nella quale Stockton portò a casa 10,51 assist a gara, piazzò il record di assist in singola partita di Playoff, ben 24, contro i Lakers il 17 maggio del 1988 e ancora oggi guida la classifica per assist realizzati in carriera.

E che dire del canadese Steve Nash, 2 volte MVP e uno dei più iconici giocatori degli ultimi 20 anni? Ancora nella memoria i suoi duetti con Stoudemire o Novitzky, giocatore oltre che bello spesso decisivo, con buona pace dei suoi detrattori che non vedevano in lui un giocatore vincente.

E Jason Kidd? L'ex coach di Milwaukee ha regalato in carriera prestazioni sublimi condite da una costanza di performance sopra la media su entrambi i lati del parquet.

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Con Magic Johnson abbiamo avuto un assaggio del giocatore contemporaneo, un prototipo che oggi sempre più spesso calca i campi NBA a suon di assist, rimbalzi e punti segnati.

In un basket dove atleti del calibro di Lebron James e Russel Westbrook riescono ad abbinare la doppia cifra negli assist a doppia cifra in punti e rimbalzi ci stavamo quasi dimenticando di quei sublimi playmaker vecchio stampo.

Questa notte e in generale la passata regular season ci siamo accorti che qualche "regista" old style c'è ancora e sa essere decisivo più che mai, quel piccoletto di cui sto parlando è chiaramente Chris Paul detto CP3.

La prestazione di stanotte in gara 5 contro gli ottimi, giovani e sorprendenti Utah Jazz è stata paradisiaca, 40 punti e una serie di giocate estasianti che hanno finalmente portato alla ribalta uno dei giocatori più forti degli ultimi 15 anni, che da tempo non riusciva ad emergere, sommerso dallo strapotere dei vari Lebron James, Steph Curry, Russel Westbrook e compagnia che in questi anni hanno letteralmente nascosto i meriti degli altri campioni della lega.

Il piccolo CP3 ha annientato Utah da solo stanotte, con una sequela di tiri da 3 imbarazzanti e delle visioni clamorose che lo hanno eretto a MVP della partita e in generale dell'intera serie.

Un clamoroso successo personale per un giocatore che dai tempi degli ex New Orleans Hornets aveva saputo offrire sempre un contributo extra alle proprie squadre. Molti infortuni ne hanno condizionato l'ascesa ma lui è sempre stato li in top 3 per assist segnati durante la stagione e pronto a guidare la classifica svariate volte e proiettare i propri centri ed ale grandi ad alley up e schiacciate continuative.

Non è un caso se l'ottima Houston vista l'anno scorso abbia vinto la Regular Season mettendo dietro i fenomeni di Golden State quest'anno. L'apporto di CP3 è stato decisivo e la sua alchimia con James Harden ha portato la coppia ad essere la coppia più bella e forte della NBA, grazie anche agli insegnamenti di Mike D'Antoni.

Adesso arriva la sfida finale con Golden State, per portare a casa il titolo di campione di conference. Si dovrà, eventualmente, passare sul cadavere di LBJ per portare a casa l'anello ma questo CP3, quello visto stanotte, visto quest'anno sembra avere un unico limite: il cielo.