Salema viaggia da sola

in #ita7 years ago (edited)

Aveva imparato a mandare giù la saliva. Quando sentiva montarle dentro la rabbia lei ingoiava. In modo frenetico e vuoto, e ne riceveva indietro un sollievo breve fino al successivo impulso di lanciarsi sul suo interlocutore per annientarlo.

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Passava da una mano all’altra un piccolo cilindro di plastica ricavato dall’involucro del pacchetto di sigarette e anche quello le dava una mano a non perdere il controllo.

“Chi è Salema?” Il poliziotto sudava nonostante l’aria condizionata, i pantaloni lo stringevano in vita e la cintura da cui cadeva rigido un revolver era sovrastata dallo sblusamento di una pancia gonfia di cibo di pessima qualità e birra da due soldi.

Salema lancia un impercettibile cenno con gli occhi e la testa per dire che sì, è lei quella che vogliono.

“Vieni, il comandante ti deve parlare”. Il panciuto le si avvicina con un modo vagamente affettuoso. Non sembra una cattiva persona, anche se ha le unghie molto rovinate. Le unghie sono il prolungamento della mano di Dio, vanno curate e lucidate ogni giorno. Così le diceva sempre la madre, mentre le strofinava le mani paffute con la pelle di una lontra.
Il panciuto le tocca leggermente la schiena e la dirige fino alla porta aperta.

“Siediti”. Il comandante, già seduto, indossa la cravatta e un anello al mignolo. Sul tavolo le pratiche di un’altra decina di giovani donne tutte sedute sulle panche, appena fuori dalla sua porta. Donne, poi. Quando si diventa donne a Uyo?

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Di donne ne ricordava poche: sua madre, la madre di sua madre, quella che l’aveva infibulata quando aveva 11 anni, e la sorella piccola, Mudia, che avevano dovuto portare all’ospedale inglese perché perdeva sangue dal naso e gli avevano scoperto un tumore del cervello che se l’era portata via in 15 mesi.

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Poi il secondo marito della madre l’aveva caricata sul camion di Wabo, il cognato del dottore che curava le donne quando rimanevano incinte, e le aveva dato una piccola borsa con un cellulare, un passaporto e 1000 dollari americani da consegnare al confine con l’Algeria dove un convoglio di Mossowa – l’organizzazione libica dei viaggi – l’avrebbe trasferita fino al porto di Tigzirt e da lì, con un altro piccolo pagamento in euro, una barca passeggeri l’avrebbe portata fino a Palermo.

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Gli euro però glieli aveva dati in un sacchetto di carta e glieli aveva infilati sotto la maglia legandoli con un cerotto grosso da manovale intorno alle costole secche. “Se ti perdi questi considera che sei morta”. Come ultima raccomandazione, a Selema avevano dato un pizzino con il nome di Mama Lorena, una brava donna che viveva a Pomezia, vicino a Roma.

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Mama Lorena aveva un collegio dove teneva le ragazze del paese, e anche qualcun'altra che veniva da Bauchi e da Yola. Gli insegnava un mestiere, tipo a rammendare gli orli, a cucire le perline sui vestiti o a tagliare il cuoio per le borse. E poi le aiutava a lavorare. Con i primi soldi Salema avrebbe dovuto subito mandare un transfer alla madre che dopo la morte della piccola Mudia se ne stava tutto il giorno chiusa dentro il recinto delle galline a guardare la strada. E non parlava più con nessuno. E aveva bisogno delle medicine.

Salema ripensava agli ultimi anni. Due anni in cui aveva conosciuto Palermo e poi Aversa dove aveva dormito con le suore di Madre Teresa e le avevano rubato tutto le compagne di stanza. E lei aveva spaccato la mascella a Milena, la ragazza grassa che dormiva con lei. E poi era arrivata, Dio sa come, alla stazione dei pullman di Tiburtina a Roma, e Mama Lorena era venuta fino a lì a prenderla con il furgoncino del collegio.

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“Che ci facevi allo svincolo di Pratica di Mare?” Il comandante leggeva su un foglio, ma non la guardava in faccia. La finestra era aperta e veniva il rumore delle onde di Torvaianica, che era più forte del ronzio del condizionatore e il comandante strillava per farsi sentire da Salema.

“Aspettavo mio zio che usciva dal lavoro per portarmi a casa”. Salema non muoveva un muscolo più del necessario.

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Girava la plastica delle sigarette tra le dita e teneva le gambe strette, strette come dovesse fare pipì. I capelli le cadevano sulle spalle, gonfi come un cespuglio di ginepro e il corpo magro e voluttuoso era appena appena coperto da una sottanina celeste. I sandali ai piedi erano consumati e i tacchi altissimi non avevano più la gomma di protezione. Quando camminava sbattevano come il becco di un uccello impazzito.

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Il comandante alza gli occhi verso i neon del soffitto. “Salema, non puoi stare sulla strada, è pericoloso. Passano le macchine, i camion, ci sono gli incidenti. Hai 16 anni, almeno così dice il passaporto. Sei troppo piccola per stare da sola in mezzo a quella strada. Quanti anni hai?”

Salema ingoia la saliva, gira, gira forte la plastica della sigaretta. “Diciotto”. Vuole gridare forte che la devono far uscire da quel commissariato, che vuole andare a casa sua, che non hanno il diritto di tenerla lì, che vuole andare a casa sua, a casa sua. A casa sua? A casa sua dove?

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“Ti sta venendo a prendere Ivan, del Centro minori di Ardea. Ti porta in un ostello con altri ragazzi e ragazze. Si fanno molte cose, si studia la mattina, poi si va al cinema, si gioca a pallone e a pallavolo, e si sente la musica….”

“E posso dormire in una stanza tutta per me?” Salema lo interrompe con il suo italiano gutturale.

“Non lo so Salema, forse dovrai dormire con un’altra ragazza”.

“Non voglio nessuno quando dormo. Le altre ragazze rubano”.

“I soldi puoi darli a Ivan così lui li tiene al sicuro e quando li vuoi te li fai dare da lui”.

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Salema prova a ingoiare la saliva, ingoia, ingoia. Suda sulla nuca e le tremano le mani.

“I miei soldi non li do a nessuno”. Il grido è talmente forte che il poliziotto panciuto e un altro abbronzato e calvo corrono dentro la stanza del comandante.

“Non è nulla”. Il comandante si preme i pollici sulle tempie. “Salema mi stava dicendo che non vuole dare i suoi soldi a Ivan. E va bene Salema, i soldi puoi tenerli tu. Magari puoi metterli in un borsellino e puoi tenerlo attaccato al collo, così nessuno può prenderli”.

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Salema lo guarda da sotto i capelli crespi e impalpabili. Sfila il cellulare dalla piccola borsa di perline. Compone un messaggio.

Il poliziotto panciuto entra nuovamente. Stavolta lo accompagna un giovane biondo e stempiato, con un paio di occhiali pesanti e un grosso zaino appoggiato sulla spalla destra.

“Lui è Ivan” lo presenta il comandante.

Ivan guarda Salema. Salema guarda Ivan. “Ciao”, fa lui. Lei non risponde. Ingoia la saliva.

Poi il trillo di un messaggio.

“Mio zio sta venendo a prendermi”

Ivan guarda il comandante. Il comandante guarda Ivan.

Salema si alza prende la borsa di perline e se la infila a tracolla. Il laccio segna il confine tra i suoi piccoli seni. Sotto non porta nulla, solo uno slip che fa un disegno buffo sul suo sedere magro.

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Un altro messaggio.

"Mio zio mi aspetta fuori". Si incammina Salema, con i tacchi che battono sul pavimento di linoleum del commissariato di Pratica di Mare e fanno un rumore come il becco di un uccello impazzito.

Varca la porta e la borsa che le oscilla sul fianco urta lo stipite lasciando una traccia leggera del suo passaggio. Una traccia morbida e pelosa, un piccolo orso di peluche.

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Tutte le immagini sono di mia proprietà

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bravissima

Oohh... se inizi la serie dei tuoi racconti sbanchi!

Grazie è un po' romanzata. Ma è una storia vera

Bravissima.

Solo due commenti? :-(

Bellissimo. Complimenti. Usare altre parole mortificherebbe la bellezza di quello che hai scritto.

Grazie sei gentile 🤗

Asciutto e lirico. Bellissimo.

Grazie. Ogni tanto i ricordi riaffiorano e se li impasti un po' e li racconti fanno meno male

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