Adalberto (by Kork75)

in #ita5 years ago

Adalberto

Nel gennaio del 1972 Adalberto accompagnato dal padre partì per un lungo viaggio nel sud del paese, direzione, la città di Santos. Con il cuore pieno di speranza e il suo vecchio pallone “Telestar” nello zaino il ragazzo inseguì e raggiunse il suo più grande sogno, diventare un calciatore. Nello stato paulista Adalberto superò brillantemente le selezioni, che lo portarono a un provino, che si concluse con la firma del suo primo contratto da professionista con il “glorioso” Santongê Fútbol Club. Quel diciotto maggio del 1972 l’appena diciassettenne Adalberto Ferreira da Silva ma per tutti solo Ada, tornò per la prima volta da quando partì a Rio de Janeiro, la sua città. Appena varcò l’ingresso di casa abbracciò la madre e le due sorelle. Le tre donne, trovandolo “bellissimo” con addosso l’uniforme del Santongê lo ricoprirono di complimenti, di baci e lo tempestarono di domande, erano curiose di sapere tutto ma proprio tutto, sulla sua nuova squadra e sulla città di Santos. Il ragazzo ricambiò affettuosamente le attenzioni della madre e delle due sorelle, ma con una scusa, salì in camera sua e si tolse rapidamente giacca e cravatta e le sostituì con i suoi vecchi vestiti di sempre. Indossò un paio di scarpe di tela rotte, una tuta da ginnastica con le toppe sulle ginocchia, una maglietta da calcio lisa con strisce verticali bianconere (visibilmente di due taglie più grandi) e si mise in testa il cappellino da baseball che trovò anni addietro sulla spiaggia di Copacabana. Finalmente cambiato con abiti più comodi, scese a salutare tutti i parenti accorsi a celebrarne il ritorno. Suscitando lo stupore generale dei presenti che gli avevano organizzato una bellissima festa di bentornato, decise che doveva andare a trovare i vecchi amici al “quartiere”. Così tra i rimproveri della madre e il permesso del padre, prese il suo nuovo borsone da calcio e si diresse alla fermata del bus. Salì sul primo mezzo per Flamengo, mostrò il biglietto al controllore e prese posto nel sedile affianco al suo.

“Ragazzo, sei sicuro che vuoi andare a Flamengo con quei colori addosso?”, domandò l’autista a Adalberto. Non ricevendo risposta, l’uomo scosse la testa, chiuse le porte e ripartì.
Il giovane sistemò con cura il borsone tra le sue gambe, si infilò la “lunga maglia” nei pantaloni e si sedette soddisfatto. L'accarezzò diverse volte quella borsa, come se fosse la cosa più cara che avesse al mondo e con orgoglio rispose al conducente.
“Signore, questa è la maglia da trasferta del Santongê, vede la borsa?”
“Già, vedo. Pensavo che eri del Fogáo. Sai i colori bianconeri…da queste parti non sono ben visti”
Adalberto voleva spiegare all’autista che in realtà lui era di Rio e che giocava nel Santongê, ma l’emozione che avrebbe riabbracciato i suoi amici fu talmente tanta che rimase in silenzio. La mezz'oretta d’ autobus, che separava casa sua dai campi di calcio la passò fantasticando su cosa raccontare ai vecchi compagni di squadra.


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Immagine CC0 creative commons

Il giovane calciatore, scese dal bus, salutò l’autista e si diresse rapido verso i campi d’allenamento delle giovanili del Flamengê. A Ade gli si aprì il cuore quando davanti a sé rivide la lunga fila di campi da pallone, uno dietro l’altro come i vagoni di un treno. Non erano veri e propri campi regolari e nemmeno dei piccoli impianti, ma terreni di terra battuta, lunghi si e no una sessantina di metri, con alle estremità di ognuno di essi due porte da calcio. Una distesa di terra rossa simile a quelle dei campi da tennis, il tutto senza nessuna recinzione, da un lato la spiaggia e dall'altro la strada con qualche aiuola e il verde della vegetazione ne delimitavano un perimetro immaginario. Gli impianti erano accessibili a tutti, infatti risultavano sempre occupati, dal mattino alla sera da interminabili partite. I primi giocatori di solito arrivavano sempre a tarda mattinata e fino a poco dopo il tramonto la grande “giostra” non si fermava mai, senza una sosta o una tregua. Appena due squadre finivano di giocare subito da bordo campo ne entravano altre due e così via. Solo l’oscurità, che rendeva il pallone invisibile decretava la fine delle sfide. Tra le centinaia di uomini, ragazzi e bambini che prendevano a calci e rincorrevano un pallone, c’era una sola regola per l’utilizzo degli impianti, dopo le cinque di pomeriggio i campi centrali, quelli più belli, perlomeno per l’aspetto, erano riservati alle giovanili della squadra professionistica del Flamengê. Anche quel pomeriggio una quarantina di ragazzi che indossavano maglie e calzoncini dello stesso colore (il rossonero a strisce verticali) e alcuni, i portieri, con una casacca diversa, entrarono in campo guidati dai loro allenatori, tra gli applausi e le grida d’incitamento. Il contrasto tra i ragazzi del “Fla”, con la loro tenuta sportiva e i palloni di cuoio regolamentari e gli altri appassionati con i loro abbigliamenti improvvisati e la maggior parte addirittura a piedi scalzi era evidente, come era evidente un’altra cosa, la passione e l’amore per il calcio che si respirava nell'aria e che rendeva magico e unico quel luogo. Passò una decina di minuti e di spettatori non ce ne furono più. I ragazzi che occupavano il campo, “sfrattati” dai “futuri professionisti”, si riversarono su quelli adiacenti, continuando così la loro partita. A bordo campo seduti su delle panchine sgangherate, restò soltanto qualche vecchio pensionato e una coppia di fidanzati che si scambiavano effusioni amorose. Ada per assistere agli allenamenti dei suoi ex compagni di squadra si sedette sopra una vecchia latta d’olio, in compagnia del suo nuovo borsone. Solo il signor Souza, un dirigente accompagnatore della squadra, che per tenersi in forma amava partecipare alle sedute di allenamento, nonostante i suoi cinquanta ‘anni passati si accorse di lui, e gli corse incontro.

“Adalberto Ferreira da Silva, il ragazzo che questo mese ci ha pagato gli stipendi. Il club ha fatto un bel po’ di “real” con la tua cessione. Come va campione? Come mai da queste parti? Nostalgia?”
“Buona sera, signor Souza. No, nessuna "saudade"...Sono rientrato in città per un paio di giorni, prima dell’inizio della preparazione. Volevo salutare i ragazzi prima di ripartire per Santos. Avevo fatto loro una promessa e…”,
rispose Ada alzandosi per stringere la mano al dirigente.
“Bene, ti vedo in forma. Allora dimmi, siete così forti come dicono? Con te e quel “neretto” là davanti, secondo me siete pronti per vincere un altro campionato!”
“Calma. La squadra si è forte, ma io non so se partirò titolare”, rispose il ragazzo mettendo le mani avanti.
“E dimmi lui “il Re”, l’hai già incontrato? Come è giocare insieme a lui?”, domandò sempre più curioso Souza, saltellando sul posto per mantenere calda la muscolatura in attesa di riprendere l’allenamento.
“Il Re? Meraviglioso, persona fantastica un gran professionista. Sul lato tecnico è unico. Tratta la palla in maniera particolare, accarezzandola e solleticandola con mille virtuosismi che fanno sembrare i suoi dribbling passi di danza, una samba. Poi ti sorprende con giocate degne dei funamboli del circo, intendiamoci tutto quello che fa è sempre e solo ai fini del gioco di squadra. Un vero numero dieci d’altronde è un campione del mondo”,
rispose Ada con gli occhi lucidi, quasi commosso parlando del suo idolo di sempre.
“Dicevi che ti ispiravi a lui e ora giochi insieme a lui, non male… Un giorno prenderai anche il suo posto, ne sono certo. Sono felice per te ragazzo, te lo meriti tutto questo. Ora andiamo a fare due tiri a pallone, ci uniamo a quel gruppo di scappati di casa, in quel campetto là in fondo, ti va?”
, Souza indicò un manipolo di persone, che correva dietro a un logoro pallone una ventina di metri da loro.
Facendo sì con il capo, Ada rispose,
“Andiamo, tanto qua l’allenamento è appena iniziato e ne avranno ancora per un po’”, prese la borsa e si avviò in direzione del campetto. Discutendo del più e del meno con il suo vecchio dirigente.


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Immagine CC0 creative commons

Arrivati al perimetro di gioco attesero con altre due persone, che qualcuno abbandonasse la partita per prenderne il posto. Divertiti, i due osservarono uno dei due portieri che incurante dell’azione si accese una sigaretta. Nemmeno il tempo di aspirare, che l’improvvisato numero uno fu colto di sorpresa da un repentino attacco avversario. L’estremo difensore, si riposizionò velocemente al centro dei pali e con la sigaretta in bocca, si lanciò in tuffo bloccando la palla. Souza scoppiò in una grassa risata che si tramutò in singhiozzo interminabile, tra le risate di tutti i presenti dentro e a bordo campo. Quei calciatori non erano tutti giovanissimi, accanto agli adolescenti c’erano uomini di venticinque o trent’anni se non di più. Per lo più erano operai che si godevano il turno di riposo o neri disoccupati delle favelas, le famose bidonville di Rio che trovavano in quelle ore di svago un rifugio dai loro problemi quotidiani. Un'altra cosa che divertiva Ada ad assistere a quelle partite, era lo spirito dei giocatori e le loro regole non scritte. Quando due di loro erano impegnati in uno dei tanti dribbling, fatti di finte e giravolte “ubriacanti”, gli altri giocatori invece di chiamare il passaggio o correre per smarcarsi, restavano immobili al loro posto ad ammirare l’aspro duello. Souza e Adalberto attesero pazientemente il loro turno e riuscirono a giocare un’oretta di un “improbabile” partita dal risultato incerto, c’è chi diceva che era finita 13 a 10 chi 14 a 11. Alla fine, bianchi e neri grandi e piccoli, si batterono grandi manate sulle spalle scambiandosi abbracci fraterni, in quello spirito d’eguaglianza che rende unico un paese come il Brasile che ignora da sempre cosa sia il razzismo.

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Stremati ma felici per la loro “sgambata”, Adalberto e Souza raggiunsero i giovani calciatori del Flamengê alle baracche di lamiera usate come spogliatoi. L’atmosfera di fine allenamento era sempre una festa. Da dentro lo spogliatoio si sentiva la musica di una radiolina “sparata” al massimo volume e di sottofondo le risate e il chiacchiericcio ad alta voce dei ragazzi. La porta delle baracche era perennemente aperta per permettere all'umidità e al vapore prodotti dell’acqua calda delle docce, di fuoriuscire dagli angusti locali. I ragazzi, a gruppetti di tre o di cinque, uscirono dagli spogliatoi con la testa umida e con addosso ancora l’accappatoio, rapidamente, svoltarono dietro la baracca per finire di rivestirsi all'aperto, sulle panche messe a loro disposizione. Un accompagnatore della squadra, riconsegnò chiamandoli per nome, i loro effetti personali che aveva custodito durante le due ore d’allenamento. Era d’obbligo invece per i ragazzi più giovani o per i nuovi arrivati, fare la doccia per ultimi e fermarsi al centro del campo ad attendere le istruzioni degli allenatori. E così fecero anche quella sera una decina di ragazzi. Con le ramazze in mano un primo gruppo cominciò a rassettare gli spogliatoi, mentre un altro gruppo, ripose nel capanno al lato del terreno di gioco tutto il materiale impiegato quel pomeriggio, compreso i palloni. Il vecchio custode, l’Arturo Pereira, si assicurò per ben due volte di aver chiuso con doppia mandata e lucchetto il “prezioso” deposito, poi si diresse verso l’impianto di illuminazione e abbassò gli interruttori. I “novellini” si fecero la doccia con la poca acqua calda rimasta e nella semi-oscurità. L’allenamento era finito. Alla vista di Adalberto i suoi ex compagni di squadra gli corsero incontro, lo abbracciarono e gli tributarono un lungo applauso seguito da cori da stadio.

“Eravamo sicuri che per un po’ non ti avremmo rivisto, invece eccoti qua. Amico mio, come va? Sei pronto a esordire in Serie A?!”, gli chiese Francisco prendendolo affettuosamente a “pugni” sul braccio destro.
“Francisco, finalmente quest’anno la fascia da capitano è la tua. Ora sei il più anziano. Esordire in serie A? Si sono pronto! Non vedo l’ora di giocare, vedi la maglietta”, rispose Adalberto sorridendo e mostrando con orgoglio la maglia del Santongê Fútbol Club.
Nel frattempo, si avvicinò al capannello di giovani il custode Arturo Pereira, che riconobbe subito Ada e l’apostrofò “Traditore! Questa non me la dovevi fare, venire al campo con addosso quei colori! Vieni qua, ragazzino” e lo strinse a sé in un poderoso abbraccio.
Adalberto rispose a tutte le domande dei suoi vecchi compagni di squadra sulla sua nuova esperienza da professionista. Divertito raccontò del lungo viaggio di quattro mesi prima con il padre verso Santos. Il padre per farlo arrivare fresco al provino guidò tutta la notte, inoltre aveva tolto i sedili posteriori della loro piccola utilitaria, in modo che lui potesse comodamente dormire su un improvvisato letto ed affrontare fresco e riposato il provino più importante della sua vita.
Si soffermò allungo raccontando delle selezioni e le relative prove fisiche e tecniche che dovette superare, poi curioso chiese al suo ex allenatore Hugo Ilario, che fine avessero fatto gli altri otto ragazzi che come lui, per limiti d’età lasciarono la squadra giovanile.
“Ada, solo te ed Hilton siete passati professionisti. Gli altri si sono accasati in serie minori. So che Jonas ha ripreso a studiare, si è iscritto all’università, vuole fare il medico. Mentre se ti serve un meccanico, Sabino lavora con suo padre nell’officina di famiglia”, rispose il mister.
“Hilton con che squadra gioca?”
“Con noi, esordirà presto in seri A. Ora te lo posso dire, era in ballottaggio con te un posto in prima squadra, ma a loro serviva un difensore centrale, quindi una volta che hai superato il provino con il Santongê hanno preferito come si dice, “fare cassa”. Comunque io non ero d’accordo sulla tua cessione, se questo ti consola”, il suo vecchio allenatore salutandolo per l’ultima volta, gli strinse la mano e gli fece gli auguri per il suo proseguo di carriera promettendogli che ogni volta che la sua squadra giocherà a Rio andrà a vederlo giocare.


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Adalberto, Francisco, Souza, Arturo e un altro gruppetto di ragazzi abbandonarono insieme il campo e si diressero al carrettino sulla spiaggia che vendeva bibite e gelato al mate. “Amici allora come promesso offro io!”, disse Ada rivolto alla piccola comitiva. Quando tutti presero il loro bicchierino di cartone e la loro bibita fresca, si sedettero sulla spiaggia e accesero un improvvisato falò. Intorno al calore del fuoco, si raccontarono spiritosi aneddoti degli anni passati e storie di calcio. Francisco, prese la parola attirando l’attenzione,

“Allora, Adalberto Ferreira da Silva, la promessa l’abbiamo mantenuta?”
“Certo, cosa credi che ho in questo nuovissimo borsone da calcio?”, rispose Ada mentre con le mani frugava dentro la borsa. Restarono tutti a bocca aperta quando estrasse una bellissima “maglietta gialla” con il numero dieci della nazionale brasiliana.
“E’ la sua? Proprio la sua?”, domandò Arturo.
Si, è la sua. Ecco a voi, la maglia numero dieci di Peligno, “il Re”, quella che indossava nella finale mondiale del 1970 a Città del Messico. Questa invece è una sua foto, con dedica speciale a tutti noi del Flamengê”
Adalberto alzandosi in piedi mostrò con orgoglio e soddisfazione la sua bellissima “maglia gialla” e aggiunse, “La maglia e la foto signor Souza la consegno a lei, le porti in sede”
“Certo. La metterò in bacheca vicino ai nostri trofei. Lascerò vicino a loro un posto libero per la tua di maglia della Seleção, sono certo che ci regalerai anche tu tante gioie, caro Adalberto”, Souza ricevette dal ragazzo l’inaspettato regalo che mostrò ancora una volta sorridendo soddisfatto ai presenti.
“Ada, ora ci racconti come hai fatto ad averla?”, gli chiese curioso Francisco.
“Era già da un mesetto che gli chiedevo insistentemente la maglia, ma lui mi ignorava puntualmente con una scusa o con un'altra. Un giorno però, mi prese da parte e mi disse mostrandomi la maglia numero dieci della nazionale, che nella prossima amichevole che avremmo disputato, lui mi avrebbe fatto cinque assist e che se io li finalizzavo tutti, la sua maglia della finale contro l’Italia sarebbe stata mia. Eccola qua! La partita finì otto a uno e io segnai cinque gol!”, mentre raccontava la sua storia Adalberto era visibilmente commosso
La serata si concluse con un’epica partitella di “footvolley” sulla spiaggia e come sfondo uno dei più bei panorami al mondo, la baia di Rio illuminata.


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Con questo racconto partecipo a:
theneverendingcontest n° 27 S2-P6-I1 - Contest
Il tema e l'ambientazione sono quelli proposti da @pawpawpaw, vincitore del contest n° 25 S1-P6-I1:

Tema

Maglietta gialla
Ambientazione
Anni '70

Saluti @kork75


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Amixi, che racconto emossionanci do Brasiu!

(Non imitate questa forma scritta di brasiliano a casa, oltre ad essere pericolosa non esiste)

Sono io eh, ho sbagliato account :D

🇧🇷...che "golassso"⚽🥅 Grazie per il commento 👍

Anche io l'ho letto, comunque! Finale emozionante e bella atmosfera carioca! Bravo!

Posted using Partiko Android

Grazie😜👍

Bellissimo!!

Posted using Partiko Android

Grazie😜

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