La Natura e l'Oblio

"Il nostro vivere è una serie di adattamenti, cioè, un'educazione all'oblio."
Jorge Luis Borges (*)

Il cielo è terso stamane. Il primo generoso sole di metà febbraio riscalda l'aria e scioglie la brina sui tetti e sull'anima. Mi ritrovo a camminare lentamente inseguendo la linea immaginaria dell'orizzonte in questo tratturo sterrato che, ancora, mostra profonde pozzanghere scavate dal passaggio delle auto. Faccio un salto e supero un basso muretto a secco; continuo a camminare sperando nella benevolenza dei preprietari dei terreni. L'erba è bassa, mangiata dalle bestie al pascolo brado. Questo la rende infida e scivolosa. Ma il suo splendido color verde mi fa pensare al miracolo della natura. I colori non sono tenui e indefiniti, ma sfavillanti. La bellezza del cielo azzurro è abbaccinante, il manto verde - intrammezzato dal grigio metallo del granito che ogni tanto affiora - mi fa pensare ad un enorme guscio di tartaruga sulla quale cammino. Nessun pensiero possiede la mia mente in mezzo a questo miracolo nel quale sono immerso. Continuo, e continuo a camminare a passo lento, senza meta fino a quando la mia fronte non inizia a perlarsi leggermente di sudore.

Superato un piccolo avvallamento, mi ritrovo in una radura con, al centro quasi geometrico, una casa ormai diroccata. Si tratta di una piccola casupola che si erge rispetto ai capanni che la circondano e che probabilmente erano adibiti a ricoveri per gli animali e a magazzini per gli attrezzi. Una regina circondata dai suoi pedoni su una immensa scacchiera. La porta è socchiusa. Entro dentro.

L'aria sa di chiuso e di ricordi. Una vecchia credenza impolverata e delle sedie fanno bella mostra appoggiate sul muro tinto di un vivido azzurro quasi ad imitazione del cielo di questa giornata. In cucina sono appesi dei vecchi setacci usati probabilmente per levare le impurità dal grano. Chissà quante storie di vita potrebbero raccontare queste pareti: nascite, morti, anni prosperi e anni di carestie. Forse anche furti di bestiame e incendi. Notti di tempesta e notti estive nei quali si sentono i grilli cantare. Sicuramente queste mura racconterebbero la giornata in cui gli abitanti hanno raccolto le loro umili masserizie per abbandonare il luogo per sempre, forse per trasferirsi a fare gli operai in qualche fabbrica del nord Italia o all'estero. Immagino i pianti delle donne, la rabbia degli uomini. La speranza dei bambini, forse ora vecchi seduti su una panchina di qualche metropoli dove ripensano a questo luogo che io sto osservando. I miei occhi sono i loro occhi.
Osservo da una finestra tinta di verde la bellezza del panorama. Tutto è avvolto dall'oblio tranne lo splendore della natura, eterno, immutabile ed indifferente alle vicende umane.
Esco fuori curandomi di richiudere la porta. Faccio pochi passi fino ad arrivare ad un abbeveratoio dove le bestie hanno bevuto almeno fino a quando qualcuno ce le ha portate. Proprio lì dove, nella terra umida, si erge lo splendore di una limba 'e pudda. Una rara orchidea selvaggia.

Le foto sono di mia proprietà

(*) Jorge Luis Borges, "La postulazione della realtà", in "Tutte le opere", vol. I, a cura di Domenico Porzio, Mondadori 1984, pp. 341-347.