I demoni cyberpunk delle Alpi svizzere (Seconda parte)

in #ita4 years ago (edited)

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La facciata della palazzina interna alla corte del castello è all'apparenza incredibilmente dimessa, quasi sciatta. Addirittura si vedono dei rattoppi di intonaco in cemento. Lasciati così, senza una mano di pittura che uniformi il rattoppo al resto della facciata. Le finestre sono vecchie. Non antiche, vecchie. Danno l'impressione di lasciar passare all'interno l'umidità e il freddo.

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Ma già ad uno sguardo più attento le cose cambiano: il museo non inizia una volta varcata la porta, è già in questa corte interna. Oltre ai guardiani - l'irinni tormentatrice e il piccolo saldatore armato - vedo, sopra delle seggiole poste all'entrata, un bassorilievo che rappresenta la sezione di una pistola caricata con dei proiettili umani - o umanoidi - pronti ad essere sparati. L'incubo distopico e surreale di Giger è già iniziato. Il suo mondo fatto di interazioni uomo-macchina e di cyborg alieni esce fuori dalle sale e invade il mondo reale. Una scelta emblematica e profetica che ci ricorda come il nostro mondo non è quello che ci illudiamo che sia, ma corre verso quella commistione tra biologico e meccanico, tra reale e cyberpunk che Giger ha profetizzato con la sua arte. Gli xenomorfi siamo già noi.

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Salgo le scale, non senza volgere lo sguardo al pavimento. Non è il selciato pulito del paese delle favole di questa parte di Svizzera dove mi trovo, ma è una strana superfice dove è sbalzato uno strano motivo che mi da l'impressione della parola scritta ancorchè incomprensibile. Forse si tratta dell'alfabeto di uno strano libro scritto da una civiltà aliena ormai estinta. O molto più probabilmente è il linguaggio-macchina con il quale interagiscono i cyborg del mondo dell'artista. Parola scritta - sebbene in un alfabeto incomprensibile - e immagine si fondono nell'immaginario di chi osserva. Entro nel ventre della balena.

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Le sale si susseguono in un incubo che mi avvolge. Lo spazio non ospita ed espone l'arte ma esso stesso è arte: dal pavimento sempre nella stessa superfice-alfabeto vista fuori, quadri dipinti con la tecnica "a spruzzo" con l'aerografo che rendono l'immagine evanescente e avvolgente come un sogno e sculture di *xenomorfi" che mi proiettano in un quadro del suo amico Salvador Dalì.

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Tutto è arte, tutto è incubo, tutto è surreale e contemporaneamente reale. I sinuosi corpi biomeccanici rappresentati sono ambivalenti; amore e morte. Eros e Thanatos.

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Ma tutto è anche razionalità scientifica e preghiera gnostica. Techné e Psiche. Chissà se Giger nel suo lungo percorso di ricerca si è imbattuto nei cosmisti russi Nikolaj Fëdorov e Vladimir Vernadskij. In fondo l'artista svizzero ha dato materia alle loro teorie: che altro sono le figure biomeccaniche se non umanità autoevoluta e lo spazio - questo ventre di balena - se non la noosfera dove la forza del pensiero dell'artista è forza biologica sopravvissuta alla morte che plasma e modifica lo spazio?

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Entro nel caffé del museo e la sensazione di essere dentro un essere vivente si fa ancora più forte. Le volte appaiono come un corpo visto dall'interno. Un enorme cassa toracica dove gli avventori sono, in fondo, gli organi pulsanti di vita.

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Un viaggio questo che non è più l'incubo distopico dell'inizio, nel quale ci si sente imprigionati, ma un placido e calmo osservare un universo che sembra una via di mezzo tra quello immaginato da Salvador Dalì e Hieronymus Bosch. Quando si inizia a capire un incubo questo non è più tale.

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Riprendo il mio vagare tra le sale, mi affaccio ad una finestra e penso che forse l'incubo è nel mondo di fuori, così apparentemente calmo, ma che costruisce inconsapevolmente la realtà distopica che Giger ci ha disvelato. Continuando ad illuderci di vivere in una realtà che è solo finzione.

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Le foto sono di mia proprietà

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