Cowboys vs Dinosaurs

in #ita7 years ago (edited)

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Bentornati a Fuorirotta. Rieccoci nella dimensione parallela, nella valle dimenticata, nella caverna irraggiungibile… Questa è la rubrica di Altrimondi dedicata ai luoghi della geografia fantastica, quelli che si possono trovare solo perdendosi. Nella precedente “puntata” (potete leggerla qui), eravamo fortunosamente incappati nelle Terre dei Dinosauri, quegli “spazi separati” dove specie viventi antichissime sono misteriosamente sopravvissute per milioni di anni senza che la selezione naturale venisse a disturbarle… Abbiamo brevemente accennato ad alcune opere che – in ambito letterario – hanno deposto le fondamenta di questo filone e stavamo per inoltrarci nella sempre prolifica fabbrica del cinema (particolarmente generosa con i bestioni preistorici), quando, d’improvviso, ecco che si era fatto tardi…

PS - Tutte le immagini di questo post sono di mia esclusiva proprietà.

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È inutile negarlo. Quando si tratta di mettere un po’ di pepe in una storia, nessuno sa farlo come gli americani. La scoperta dei rettili antidiluviani, e le relative ricerche sul loro conto, avrebbero rischiato di rimanere una lunga, complicata e barbosa disamina scientifica, se il caro vecchio West non si fosse messo di traverso. Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh erano due studiosi non meno blasonati dei loro colleghi europei, ma in omaggio allo stile, diciamo così, più disinvolto del Nuovo Mondo, non disdegnavano di portare con sé oltre a scalpellini e picconi anche un po’ di pistole e fuciloni con relative munizioni. Sapete com’è, le selvagge terre dell’ovest erano ricche d’insidie… Le imprese di questi due formidabili cowboy-scienziati – che si collocano grossomodo tra il 1868 e il 1872 – sono note come The Bone Wars, le guerre delle ossa, e coincidono con una corsa ai fossili senza nulla da invidiare a quella all’oro che, suppergiù in quegli stessi anni, travolgeva le Black Hills o il Klondike. Una caccia al reperto, nella quale Cope e Marsh si sfidarono senza esclusione di colpi, tra Montana, Kansas, California e South Dakota, e che – a conti fatti – determinò un possente balzo in avanti nella conoscenza dei nostri amati lucertoloni…

Se il più o meno recente Cowboys & Aliens di Jon Favreau (2011) ci ha dimostrato – ammesso che se ne sentisse il bisogno – che il western può essere mescolato anche con l’epopea immaginifica degli extraterrestri invasori, un altro film aveva saputo trasportare stivali e cappelloni nel cuore stesso del Giurassico già nel 1969.
Anzi, a dire il vero, la lunga storia di The Valley of Gwangi (in Italia tradotto, non si sa perché, con La vendetta di Gwangi) era iniziata molto prima. In un certo senso, quella storia prende il via nei primi anni Trenta, sul set dell’imprescindibile King Kong di Ernest Beaumont Schoedsack e Merian Caldwell Cooper, dove un giovane addetto agli effetti speciali di nome Ray Harryhausen inizia il suo promettente apprendistato sotto l’ala protettiva del più esperto Willis O’Brien. Il loro compito è dare vita ai modelli di animali preistorici (lo scimmione Kong compreso, naturalmente) che affollano la selvaggia e primordiale isola – Skull island – su cui gran parte del film si svolge. Per farlo, ricorrono a una tecnica che all’epoca è ancora pionieristica: la cosiddetta stop motion. Molto prima dei megacomputer della Weta digital (usati da Peter Jackson per animare il suo King Kong del 2005) e degli animatroni che elettrizzeranno il fantacinema a partire dagli ultimi anni Settanta, questa era il sistema più efficace per trasmettere all’occhio dello spettatore, fotogramma dopo fotogramma, l’illusione che un pupazzo di gomma e fil di ferro potesse camminare e respirare…

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Il progetto di Gwangi – mostro che nell’intenzione originale doveva essere uno mega-scorpione e poi si mutò in un altro gorilla, per diventare infine un Tirannosauro (o forse un allosauro?) – nasce dalla vulcanica testa di O’Brien nel 1942, quasi come un ideale seguito di King Kong, ma è fatalmente destinato ad avere vita difficile… Interrotto e riavviato più volte, il cantiere del film si perde per strada e le riprese realizzate ora presso uno studio, ora presso un altro, vengono talvolta rimontate e inserite in altri lungometraggi (Mighty Joe Young, del 1949 o – più tardi The Black Scorpion, del 1957, per ricordarne solo un paio), in un intrico di vicissitudini produttive nelle quali gli storici del cinema sembrano non aver ancora messo del tutto ordine. In ogni caso, nel 1962, O’Brien passa a miglior vita e l’impresa viene ereditata dal discepolo Harryhausen che, nel frattempo è diventato un pezzo grosso nell’industria degli SFX hollywoodiani… Toccherà a lui portare al traguardo, con l'aiuto del regista James O'Connoly, The Valley of Gwangi (in una versione a colori che il primo ideatore del soggetto non avrebbe mai immaginato), confezionando quello che negli anni Quaranta sarebbe stato considerato un kolossal senza pari, ma che – ormai alla fine dei Sessanta – sembra più che altro un reperto archeologico uscito dalla cineteca personale di un anziano collezionista…

C’è chi dice – ma non mi è riuscito di trovave alcunché a supporto di questa tesi – che Gwangi sia una parola nativo-americana (di quale etnia?) che significherebbe “lucertola”. Di certo c’è che si tratta di una parola buffa – Gwangi il clown suona più credibile di Gwangi il mostro – ed è oscuro perché O’Brien pensasse che avrebbe funzionato… Così come rimane oscura (semplicemente perché ancora non ve l’ho raccontata) la trama della pellicola. A questo, d’altro canto, si rimedia in fretta: verso i primi del Novecento, la giovane cowgirl J.T. Breckenridge cerca di portare avanti il suo rodeo-show circense con risultati purtroppo deludenti. Ma le cose potrebbero migliorare grazie alla nuova attrazione dello spettacolo, un misterioso cavallo nano spuntato dal nulla del quale apparentemente non esistono altri esemplari (è un eohippus, estinto circa cinquanta milioni di anni fa)... Alla ricerca dell’origine di quello strano animale, la ragazza – con l’aiuto dell’aitante Tuck Kirby e del professor Bromley – penetrerà in una proibita “valle preistorica” dove, come un novello Kong, regna incontrastato il feroce sauro carnivoro Gwangi. Inutile dire che, ripetendo un copione già noto, la spedizione mediterà di portarlo alla civiltà per farne un freak da baraccone. Idea che condurrà immancabilmente a conseguenze catastrofiche…
E qui, per ora mi fermo.
Grazie e a presto.

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