Grey Five - Capitolo Due
I
La sala in cui li avevano fatti riunire assomigliava molto a una classe di scuola, per certi versi. Quattro file di tavolini simili a banchi erano ordinatamente distribuite per tre quarti della stanza, mentre la zona rimasta libera era occupata da un ripiano di proiezione piuttosto grande e da una scrivania posizionata nell’angolo.
Killington era compostamente seduto su di una sedia a fianco di essa, in maniera da essere in faccia a chi sedeva nei banchi, la valigetta posata sulle ginocchia con le mani rigidamente stese sopra, la schiena dritta e il riflesso dei neon a soffitto nelle lenti degli occhiali. A fianco a lui, dritto come un fuso e col petto in fuori, vestito in giacca e cravatta ma dando l’impressione di essere comunque in anfibi e mimetica, il generale Williamson squadrava i detenuti seduti scompostamente di fronte a lui, simili ad allievi decisamente fuori corso annoiati dalla lezione.
Il generale era in pensione da quasi dieci anni e, al suo congedo, aveva immediatamente ricevuto un’offerta di lavoro dalla Triple W. Il suo compito era di istruire i soggetti destinati alle missioni ad alta pericolosità sui loro scopi, sull’attrezzatura loro fornita e sul suo funzionamento e, più importante di tutto, il suo compito era rimanere in collegamento diretto assieme a Killington con i detenuti durante lo svolgersi della missione. Ci sarebbe stato un militare d’esperienza, con loro, ma la supervisione dalla base era obbligatoria.
«Come di consueto,» interloquì il generale, «vi saranno affidati dei nomi in codice. Durante l’intero svolgimento della missione io e il signor Killington rimarremo in collegamento foto-laser con voi e, benché i canali di comunicazione della Triple W siano assolutamente sicuri, la precauzione di un nome in codice è preferibile.»
«Perché i canali sono criptati? La grande e magnifica Triple W fa cose illegali, forse?» lo interruppe sarcastico Red Two, un sudamericano tarchiato dal cranio perfettamente calvo e lucido, con due tatuaggi gemelli di croci celtiche sulle tempie.
Il generale non spostò nemmeno lo sguardo sull’uomo, continuando il suo discorso.
«Come è logico che sia, la Triple W ha interesse nel mantenere la propria privacy. Essendo la grande azienda che è, come voi tutti saprete certamente, è soggetta a un massiccio spionaggio industriale e la cautela viene prima di tutto. Non vorremmo mai che importanti e preziosi segreti su progetti e scoperte della Triple W trapelassero dalle nostre comunicazioni andando ad arricchire le aziende avversarie. È tutto chiaro, sin qui?»
I tre annuirono. Poi Red Two alzò la mano con un ghigno sardonico, come uno scolaretto.
«Sì, matricola 0013463?»
Red Two fece una smorfia.
«Noi li abbiamo già, dei nomi in codice.»
Il generale alzò le sopracciglia.
«Ma davvero?»
«Nel carcere di East New Talburgh usa attribuire ai prigionieri un nome basato sul colore della sezione e il numero di cella che li accoglie, generale,» intervenne Killington, «così tutti loro hanno un nome molto… cinematografico, si potrebbe dire.»
Il generale, che aveva in mano una lunga bacchetta, se la batté pensierosamente nel palmo della mano mentre fissava il soffitto. Con quei capelli a spazzola, per quanto bianchi e radi, quella mascella da duro e il volto perfettamente rasato sarebbe apparso come un militare in incognito anche vestito da clown.
«Molto bene, signori. Quali sarebbero questi nomi in codice?»
«Noi veniamo dalla sezione Rossa. Andiamo da Red Two – che sono io – a Red Seven.» terminò il sudamericano indicando un gigante dalla testa a lattina e gli occhi piccoli e cattivi.
«La nostra è la sezione Blu. Io sono Blue One e quello è Blue Fourteen, capo.»
«Grey Five.»
Il generale annuì brevemente.
«Molto bene. Mi paiono adeguati. Danno, tra l’altro, l’impressione della presenza di tre squadre in campo: un eventuale ascoltatore indesiderato penserebbe erroneamente che tre squadre di almeno quattordici elementi ciascuna siano in azione, mentre saranno solo tre per un totale di ventuno. Eccellente.»
Red Two alzò di nuovo la mano.
«Sì?» chiese il generale con tono irritato.
«In quale missione tritacarne ci state inviando, generale?»
Calcò il tono sulla parola “generale”, diventando quasi condiscendente.
Williamson ignorò la punzecchiatura.
«Sarete inviati su Arcturus IV, nel sistema Beta 82. È una luna di Saturno II dove abbiamo impiantato, anni fa, una base scientifica per lo studio delle forme di vita che la popolano.»
Grey Five sgranò gli occhi.
«Forme di vita?»
Il generale annuì.
«Si tratta del quarto luogo in tutto l’Universo – eccettuata la Terra, naturalmente – in cui siano state ritrovate forme di vita. Piuttosto sviluppate, inoltre, anche se non paragonabili all’avanzata società dei karankatul e ai mitici aleani, della cui esistenza non si è però mai avuta conferma. Una fauna vasta e interessante. Arcturus IV ha un’atmosfera respirabile, ricca di ossigeno e azoto, ma la presenza di molti altri gas liberi suggerisce la precauzione di un impianto di respirazione o, perlomeno, di escursioni brevissime all’esterno. È superfluo dire che queste ultime sono quasi nulle. Come dicevo, è presente una base scientifica molto grande sulla luna in questione, costata diverse migliaia di miliardi di crediti, e al suo interno sono presenti anche alcuni laboratori di ricerca della Triple W, segretissimi. Per terminare, esiste un giacimento minerario di silicio immenso che, logicamente, è attualmente sottoposto a intenso sfruttamento, dato che sulla Terra oramai abbiamo esaurito gli agglomerati minerari più consistenti. Dato che questo giacimento si trova in una zona climaticamente ostile della luna – che ha la peculiarità di raggruppare per zone conglomerati gassosi di varia natura – il complesso d’estrazione è blindato e attrezzatissimo. In parole povere, altre migliaia di miliardi. E qui sorge il problema.»
Gli spettatori erano ora attentissimi. Avrebbero scoperto cosa li attendeva su Arcturus IV.
«Esattamente sei mesi fa, dopo alcuni rapidi messaggi sconnessi e allarmisti, l’impianto di estrazione è scomparso. Non nel senso fisico, naturalmente, ma le centinaia di operai specializzati, dirigenti, geologi e così via che vi erano impiegati sono spariti di colpo. Nessun messaggio è più pervenuto dal sito minerario, né è stato possibile contattarlo in alcun modo. Gli inviati dall’area scientifica dicono che è completamente blindato, tutte le porte e le feritoie sono sigillate, i pannelli di controllo per l’accesso sono senza energia. Per entrare servirebbero una bomba o un laser molto potente e ore di lavoro.»
Il generale fece una pausa per riprendere fiato e riordinare le idee.
«Siccome non sono presenti militari nell’area scientifica – erano tutti nel sito minerario e, comunque, la loro presenza era semplice precauzione ed erano poche unità – non ce la siamo sentiti di chiedere a qualcuno di quei preziosissimi cervelloni di rischiare. Abbiamo mandato un’unità d’élite dei marine che si trovava su Gea II, una stazione orbitante situata in un sistema vicino, e abbiamo chiesto loro di forzare l’ingresso del sito minerario e di scoprire cosa fosse successo. Tre mesi fa sono arrivati su Arcturus IV. Questo è uno degli ultimi messaggi che abbiamo ricevuto dal tenente Simmons. Porta la data del giorno in cui sono sbarcati sulla luna.»
Il ripiano di proiezione si illuminò e una finestra visiva alta due metri e larga tre si accese davanti a loro; apparve in primo piano il volto squadrato e anonimo del tenente Simmons, un uomo di mezz’età dagli occhi ravvicinati e il naso camuso.
«Comunicazione tre del giorno quattro Aprile tremilaquattrocentodue. Parla il tenente Simmons della squadra Gamma Otto. Siamo giunti oggi su Arcturus IV e abbiamo lasciato la nave attraccata alla Aefestus, la stazione in orbita attorno al pianeta. Io e dieci dei miei uomini siamo scesi a terra e siamo atterrati alla base di ricerca scientifica. Siamo stati accolti dal Dottor Miller alle ore sette e quarantacinque locali e abbiamo eseguito un’ispezione di prassi nella struttura e negli immediati dintorni. Abbiamo tentato di metterci in contatto con il sito minerario ma, come ci era stato detto, non abbiamo ricevuto alcuna risposta. La situazione globale sembra normale: non abbiamo riscontrato anomalie nella struttura né segni che risaltassero in alcun modo nel territorio circostante, tranne che per la presenza della fauna indigena che, peraltro, tende a tenersi a distanza dagli uomini. La scansione biologica della struttura non ci ha detto nulla di utile e lo stesso dicasi per quella termica, ma non è sorprendente, in quanto il grosso della struttura si sviluppa centinaia di metri sottoterra. C’è un certo nervosismo nello staff, ma è comprensibilmente legato al fatto che negli ultimi tre mesi i colleghi con cui avevano lavorato sino a quel momento siano rimasti chiusi all’interno del sito minerario.»
Il faccione del tenente si scostò e apparve loro l’immagine di una grande parete metallica costellata da feritoie chiuse, simili a gigantesche branchie metalliche, con un’unica porta così piccola rispetto al resto da sembrare quasi ridicola.
«Questo,» riprese il tenente «è uno degli accessi per i tunnel di manutenzione. Una sorta di entrata di servizio utile ai tecnici per muoversi agevolmente nella struttura senza dover transitare attraverso le aree di lavoro. Come potete vedere, il soldato Queen sta forzando la porta con un elettro-scassinatore che abbiamo portato appositamente allo scopo. A momenti dovremmo poter entrare.»
Strizzarono tutti gli occhi e videro una figura inginocchiata davanti alla porta che armeggiava con qualcosa. La visuale prese ad avvicinarsi andando su e giù al passo del tenente e, di colpo, la porta si spalancò e una nube se ne riversò fuori, investendoli e oscurando la visuale. Si udirono parecchie urla e colpi di tosse e il respiro affannoso del tenente che si muoveva alla cieca sino a uscire dalla nube. Passarono forse trenta secondi prima che la visuale tornasse abbastanza chiara da distinguere qualcosa e videro che i soldati erano tutti piegati o inginocchiati a tossire, ma parevano illesi. Il tenente si avvicinò alla porta e la visuale si abbassò sul soldato che l’aveva aperta, riverso sulla schiena e cianotico. Non pareva respirare.
La trasmissione si interruppe di colpo.
Il generale Williamson non aveva mutato espressione durante l’intera proiezione.
«Be', e poi?» chiese Red Two.
Per la prima volta aveva abbandonato il suo tono da bullo e pareva quasi spaventato. L’idea di essere spedito su un pianeta dove una squadra di marine non era servita ad alcunché non gli sorrideva affatto.
«Il soldato Helmer Queen è stato ricoverato d’urgenza presso il centro medico della struttura scientifica. In fin di vita, ma non morto. Il tenente ci ha mandato altri due messaggi prima che le comunicazioni con Arcturus IV cessassero completamente. Nel primo si limita a informarci dello stato di salute di Queen e poi ci descrive brevemente l’incidente. A quanto pare, le polveri e i gas contenuti all’interno del sito minerario, che normalmente sarebbero stati smaltiti dal sistema d’aerazione attraverso quelle feritoie chiuse che avete visto durante il video, hanno continuato ad accumularsi e, non appena trovato uno sfogo, si sono riversati al di fuori della struttura attraverso la porta. Dai primi esami non è stata rilevata alcuna tossicità, tranne una quantità piuttosto elevata di azoto e anidride carbonica, ma il soldato Queen è stato investito in pieno da qualcosa come una tonnellata di gas ed è rimasto completamente privo d’aria per quasi un minuto, rendendo la maschera antigas che indossava del tutto inutile. Ma il problema non è questo. Ora vi faccio vedere l’ultimo messaggio.»
La finestra video si accese nuovamente e il faccione del tenente apparve in primo piano. Questa volta, però, era diverso. Una barba vecchia di una settimana colorava di scuro la mascella squadrata e ombre bluastre incorniciavano gli occhi. Una macchia irregolare di quello che pareva sangue aveva schizzato un lato del volto e lo cingeva come una mano mostruosa.
«Comunicazione uno del giorno undici Aprile tremilaquattrocentodue. Parla il tenente Simmons della squadra Gamma Otto. I miei uomini sono morti o dispersi. Su dieci, solo il comatoso Queen non si è mosso dal suo posto. Il sito scientifico sembra una città mediorientale durante un bombardamento. C’è gente che scappa da tutte le parti, il panico è tangibile; la struttura, con la sua intelligenza artificiale, sembra incapace di comprendere cosa stia accadendo e mette aree in quarantena e toglie l’energia a interi settori senza alcun criterio apparente. La testa di uno dei miei ragazzi mi è esplosa a meno di un metro di distanza, colpita da una di quelle… quelle cose che sono apparse in tutta la struttura.»
Il tenente si interruppe, ansimando pesantemente e guardandosi attorno maniacalmente. A un rumore improvviso sobbalzò e la visuale scattò da un lato, ma non pareva esserci nulla nella stanza. Il volto del tenente riapparve davanti a loro.
«Il giorno che abbiamo aperto il sito minerario qualcosa ne è uscito. O forse erano in agguato, in attesa di qualcosa. Non lo so, cazzo, non lo so! Però ora sono qui! Sono esseri intelligenti, questo non si può ignorare, e sono provvisti di un qualche tipo di arma. Hanno fatto fuori almeno una dozzina di persone, per quel che ne so io, e si aggirano per il sito e la base ammazzando tutti quelli che trovano. Non so cosa vogliano, non so perché lo facciano, ma c’è gente asserragliata dappertutto come me, chiusa in stanze con la porta sprangata in attesa di aiuto. Ma siamo noi l’aiuto, cristo! Sono cinque giorni che mi nascondo in giro per la struttura tentando di capirci qualcosa. Ho mandato un messaggio alla Aefestus e a ore dovrebbe arrivare un gruppo in tenuta d’assalto. Cercheremo di salvare chi possiamo e di far fuori più… alieni che riusciamo, poi torneremo di corsa sulla nave e ci organizzeremo come si deve.»
Un’esplosione smorzata risuonò di sottofondo e il tenente alzò lo sguardo per un momento.
«Sono riuscito ad ammazzarne uno, di quei bastardi. Non ho mai visto niente di simile. Non sono robot e non sono karankatul, ma sono comunque esseri viventi di qualche tipo. Sembrano… insetti, ecco, con il corpo tutto coperto di protuberanze e sembra quasi che abbiano una corazza addosso, come uno stampo malversato pieno di pieghe e angoli. Gli ho sparato in quel torace schifoso e si è aperto come un’anguria schizzando roba nera da tutte le parti, una cosa da rimettere pranzo e cena assieme. Ucciderlo è stato facile, ma il problema è che non sembrano organizzati, almeno non secondo la nostra logica. Vanno in giro da soli, si incontrano solo uno a uno e attaccano tutto ciò che si muove. Ne ho persino visto uno ammazzare un suo simile, probabilmente un errore dovuto alla tensione. Non si capisce bene quanti ce ne siano. A ogni modo, aspetterò l’arrivo dei marine e, non appena sulla nave, invierò un nuovo rapporto. Chiudo.»
La trasmissione s’interruppe.
Il generale scosse lentamente la testa.
«Inutile dire che non abbiamo più avuto notizie. Anche la Aefestus è come morta, non riusciamo ad avere un contatto con loro. Il che ci spinge a pensare a un attacco in grande stile sia sulla terraferma che in orbita. Il fatto è che non capiamo il perché, non sappiamo chi. Brancoliamo nel buio, insomma.»
Red Seven alzò lentamente il testone a lattina, con occhi piccoli e incastonati a fondo nel cranio, e parlò per la prima volta.
«Quando l’umanità è entrata per la prima volta in contatto con i karankatul non è stata una bella esperienza. E non ci hanno certo fatto la cortesia di avvisarci, prima di attaccarci.»
«Questo è vero, ma il problema è che i karankatul esistono. Hanno astronavi che appaiono sui nostri schermi, trasmissioni radio che possono essere intercettate. Abbiamo avuto tonnellate di informazioni orali, scritte e video della loro presenza già nei primi giorni dopo al contatto. Qua è diverso. Nessuna astronave è stata individuata, nessuna trasmissione intercettata. Non abbiamo nemmeno un’immagine di questi alieni. Sono apparsi da un momento all’altro e hanno cominciato a farci fuori. Eppure il pianeta è stato studiato per anni, non esistono né città né segni tangibili di alcun tipo di civiltà. Solo animali. E nessuno di loro è in grado di ammazzare un uomo, sono tutti piccoli, per la maggior parte erbivori. Quindi arrivano dall’esterno, ma se così fosse possiedono il miglior sistema di schermatura mai concepito da specie intelligente, perché nessuno si è accorto di qualcosa.»
«Quindi voi ci state mandando a fare cosa?» esclamò Grey Five, «A bonificare un’area dove neanche i marine ce l’hanno fatta?»
«Niente di tutto ciò,» ribatté seccamente Williamson, «non correte con la fantasia. Il vostro compito non sarà bonificare, bensì documentare. Non scenderete mai su Arcturus IV, vi limiterete ad attraccare alla Aefestus e lì, capitanati dal nostro ufficiale scelto, esplorerete la nave e ci comunicherete tutto ciò che noterete di anomalo. Tenterete anche di mettervi in contatto con la struttura scientifica sul pianeta, per vedere se ci sia qualche superstite, e se le circostanze saranno favorevoli al recupero di qualcuno allora procederete.»
«Almeno saremo armati come si deve?» chiese Blue One.
«Sarete equipaggiati con la tuta corazzata standard, quella normalmente riservata ai marine. Non solo è dotata di una maschera antigas a filtro multiplo, ma anche di una riserva di ossigeno per sei ore, di scarpe magnetiche, visore notturno e a infrarossi, di radio in contatto sia con noi che con ogni elemento del gruppo e un grimaldello elettronico portatile.
Le tute sono state studiate per gli abbordaggi alle navi karankatul, quindi hanno un jet pack con carburante sufficiente per un numero limitato di manovre, nel caso rimaneste per qualche ragione nel vuoto o in assenza di gravità; possono mantenervi a una temperatura che permetta la vita anche allo zero assoluto per un tempo ben superiore a quello della durata della bombola d’ossigeno liquido e, cosa più importante, sono molto resistenti.
Non possono affrontare l’impatto di un proiettile infrasonico né resistere se decideste di tuffarvi nella scia di un reattore al plasma, ma vi eviteranno danni da munizioni standard, da attacchi corpo a corpo di quasi qualsiasi tipo e assorbiranno la maggior parte dell’impatto se doveste cozzare contro qualcosa o cadere da grandi altezze.»
Ci furono alcuni commenti entusiastici nella sala, inframezzati da bestemmie.
«Armi niente?» chiese una voce.
«La tuta è la vostra arma. Braccia e gambe sono dotate di estensioni pneumatiche collegate direttamente al vostro sistema nervoso. Quando voi camminerete, solleverete un oggetto o colpirete qualcosa le estensioni reagiranno in perfetta sincronia con i vostri arti, esercitando una forza di molto superiore alla vostra. Questo vi permetterà di correre più rapidamente, saltare più in alto, sollevare e trasportare pesi di molto superiori alle vostre normali possibilità e, in caso di scontro, di colpire con la forza di un’auto in corsa il vostro bersaglio.»
«Che figata.»
«Tutti dovrebbero averne una.»
«Tranne la polizia!»
«Già!»
Ci furono alcune risate.
«Niente armi da fuoco?»
«Le armi da fuoco non vi servono e voi non godete del privilegio dell’altrui fiducia. L’unico a esserne dotato sarà il vostro ufficiale scelto e saranno tutte tarate sulla sua impronta genetica, quindi vi avverto sin da ora: non tentate di sottrargliele. Nelle vostre mani saranno completamente inutili, è chiaro? Non mandate tutto a puttane per una stronzata, mi sono spiegato? Ci sono domande?»
Nessuno parlò.
In quel momento Killington si portò una mano all’orecchio, dove un microscopico circuito telefonico era alloggiato nella curva del lobo.
«Generale. Ho una notizia dal centro comando.»
Williamson lo raggiunse e parlottò con lui per qualche momento, corrucciandosi. I detenuti allungarono il collo, tentando di scoprire cosa stesse accadendo, ma i due terminarono immediatamente il loro breve colloquio.
«Molto bene. Sarete subito accompagnati alle vostre camerate. Si parte domattina. Saranno necessari circa quattro mesi per raggiungere la Aefestus, che si trova a otto sistemi di distanza. Salutate la Terra, starete lontani per un po’.»
II
Cal trascorse la serata a mandare curriculum un po’ dovunque, dai siti di botanica sotterranea a quelli militari, dai rivenditori di automi serventi alle ditte di consegna rapida. Una volta giunta la mezzanotte, con gli occhi arrossati e un forte dolore al collo, decise di spegnere il terminale e si stiracchiò, poggiandosi di peso allo schienale della sedia modellante. Questa, avvertendo un certo livello di pressione, si adeguò a una posizione maggiormente inclinata, cosicché lui potesse rimanere comodamente poggiato all’indietro senza, tuttavia, sdraiarsi completamente.
Cogitò sulla possibilità di prendere qualcosa per il collo, ma la scartò subito. Da quando aveva avuto la crisi, era stato continuamente imbottito di farmaci sino al congedo. Doveva disintossicarsi. Quella roba lo rendeva debole, sia di corpo che di mente. Doveva muoversi. Camminare.
Si alzò di scatto in piedi, facendo scricchiolare ginocchia e caviglie, digitò sulla tastiera virtuale a muro il codice doccia e subito il terminale venne inglobato dalla parete, la sedia dal pavimento e l’arredamento olografico, rappresentante una libreria, alcune piante in vaso e quadri in stile orientale, venne sostituito. Piastrelle azzurre orlate di bianco, cascatelle perpetue terminanti in laghetti che costeggiavano lo zoccolo del muro e un mosaico rappresentante delfini guizzanti sul pavimento lo circondarono. Cal non ne aveva mai visto uno dal vivo, dato che si erano estinti quasi duecento anni prima a causa della cucina giapponese. Una doccia emerse dal pavimento, un portasciugamani con tanto di accappatoio dalla parete a fianco a essa e, dall’altro lato, i servizi igienici.
Aprì l’acqua, impostata su trentacinque gradi, e si infilò sotto il getto, beandosi del tepore e dei muscoli che si scioglievano.
Il suo appartamento, come la maggior parte di quelli di livello medio, era grande in totale dodici metri quadri, ma conteneva ben cinquantasette varianti ambientali tra sale da pranzo e da letto, salotti, bagni con vasca, doccia o jacuzzi, sale da gioco e così via. Tutti i suoi averi erano sapientemente stipati nelle pareti e nel pavimento dall’intelligenza artificiale dell’appartamento, che li tirava fuori su richiesta o se veniva selezionata una determinata ambientazione.
Fintanto che era stato nei marine vi era rimasto solo nei brevi periodi di licenza, usando sempre le stesse tre o quattro varianti, ma da quando era stato congedato le aveva scorse tutte, preso dalla noia. Ce n’era una allucinante: un salotto con caminetto e fiamme danzanti – tutte proiezioni, naturalmente – e teste di animali estinti appese alla pareti, pelliccia d’orso bianco per terra, fucili antiquati di vario calibro in esposizione su mensole e mobiletti di legno lucido e scuro e un enorme coccodrillo imbalsamato da una parte. Selezionando quell’ambientazione, la IA estraeva una bottiglia di vino rosso con due bicchieri e metteva il tutto su un tavolino incastrato tra due poltrone di pelle zebrata. Il suo nome era “intrepido cacciatore” e, nella spiegazione, era specificato che il suo scopo fosse eccitare le ragazze.
«Musica!»
Una coppia di casse spuntò agli angoli del soffitto e partì uno dei brani che aveva salvato nel suo database. Andava matto per la musica folk del ventunesimo secolo, con quelle antiquate chitarre elettriche, la batteria non elettronica e le voci cavernose. Roba di un’altra epoca. Quello era un pezzo dei Soman, dal titolo “Doomsday”.
La voce sensuale della IA si fece sentire, abbassando momentaneamente il livello della musica.
«Cal, hai due messaggi non ascoltati in segreteria.»
«Data?»
«Il primo è del quattordici Aprile. Il secondo di oggi, sedici Aprile.»
«Play» sospirò lui.
«Messaggio uno. Mittente: Communication s.m.o.
Gentile utente, Communication vi invita ad unirvi al suo programma…»
«Stop e cancella» ringhiò lui.
«Cancellato. Messaggio due. Mittente: Amy Zhou.
Ciao fratellone! Come sta la tua crisi epilettica? No, dai, scherzo. Senti, mamma e papà domani torneranno dalla crociera attorno al Sistema Solare. Pensa, sono già passati tre mesi. Volevo solo dirti che pensavo di andarli a prendere allo spazioporto, arrivano domani alle tredici. Sarebbe carino se venissi anche tu.»
Cal si frizionò con forza i capelli con il gel multifunzione – “profumo, corpo e pulizia” canticchiò tra sé e sé ricordando lo slogan riprodotto dagli scaffali che lo esponevano, “nessuna ragazza ti resisterà! Nessun ragazzo no ti dirà!” – mentre l’indicatore dell’acqua per usi non digestivi calava repentinamente.
Tutti gli appartamenti erano dotati di una serie di sistemi per la raccolta dell’acqua – fosse essa piovana o la semplice umidità dell’aria – e tra di essi uno dei più efficienti era di certo il riciclo delle acque bianche e nere, che venivano sapientemente depurate e reimmesse in circolo attraverso lavandini e sanitari. Quando lo aveva scoperto, Cal per un po’ aveva provato senso a lavarsi con il riciclo del proprio piscio, ma poi si era abituato. Da dove veniva lui, nella zona periferica, quello non era ancora un metodo molto in voga.
Uscì dalla doccia, si asciugò, si vestì senza prestare attenzione a cosa stesse indossando e uscì di casa. La porta a scorrimento scese silenziosa alle sue spalle, priva di qualsivoglia fessura o serratura, e i neon del corridoio si attivarono grazie ai sensori di movimento. C’erano molte lamentele per il fatto che se qualche distratto lasciava il gatto libero di girare a suo piacimento le luci rimanevano accese oltremisura, con conseguente aumento della bolletta condominiale della corrente.
Cal raggiunse il portello esterno del palazzo e premette il pulsante per chiamare l’ascensore, che in pochi secondi sfrecciò lungo il binario magnetico e lo raggiunse, aprendo con un sibilo la porta trasparente. Grazie a quell’espediente, i costruttori avevano risparmiato moltissimo spazio nell’edificio che, anziché essere destinato a trombe di scale o ascensori, era divenuto anch’esso abitabile.
«Buongiorno, signor Zhou,» chiosò la cabina trasparente, «a che piano desidera recarsi?»
«Livello strada, grazie. Pareti trasparenti.»
«Sì, signor Zhou.»
L’ologramma sulle pareti della cabina, raffigurante l’interno di un antiquato taxi, si disattivò. Nuova Hong Kong apparve in tutto il suo metropolitano splendore davanti ai suoi occhi, mentre l’ascensore precipitava verso il basso a una velocità appena inferiore a quella necessaria perché il suo passeggero si staccasse dal pavimento. Rallentò moderatamente gli ultimi cento metri e si fermò con uno scampanellio al piano desiderato.
«Buona serata, signor Zhou.»
La città era un brulichio di luci, odori e rumori che non giungevano negli appartamenti ben isolati del complesso in cui viveva, il Golden Silence, che ospitava la bellezza di centotremila moduli abitativi distribuiti su oltre quattrocento piani. Le pubblicità tridimensionali, nonostante fossero in uso da molti anni, lo facevano ancora scartare di un passo per allontanarsene, per evitare mani e volti e seni impalpabili che si tendevano apparentemente verso di lui. Le insegne di locali e negozi facevano a gara sulla luminosità e mobilità e varietà dei colori, annichilendo di fatto l’illuminazione stradale, e nella più buia delle notti erano necessari gli occhiali da sole.
Cal evitò un cinorettile da passeggio, che saggiò l’aria con la lingua verso di lui e scodinzolò, scavalcò senza pensare un tombino coperto da una griglia dall’aspetto poco solido e si infilò in un vicolo familiare, dove lo starnazzio di spot, clacson e chiacchiere aerofoniche venne attutito dalle pareti ravvicinate dei due edifici in plastocemento.
Un gruppetto di sads, i capelli bianchi alla moicana e i vestiti color seppia aderenti, parlottava con tono lamentoso da una parte. Mentre li oltrepassava uno di loro lo guardò per un istante, il tatuaggio di due lacrime sotto a un occhio dilatato, da tossico. La pubblicità dei nuovi innesti facciali si attivò al suo passaggio, accecandolo momentaneamente, imprimendogli nella retina zigomi triangolari e occhi enormi, da manga, di un colore impossibile. Uno schema in movimento sottolineò alcune parti del volto e le ciglia si allungarono di colpo, le labbra divennero sottili, le orecchie appuntite. Era la nuova moda, “stile marziano”, anche se nessuno abitava effettivamente il pianeta rosso. Nessun indigeno, perlomeno.
Cal si frugò in tasca alla ricerca degli occhiali da sole, in modo da ripararsi da nuovi spot luminosi, ma si accorse di averli scordati nell’appartamento.
«Al diavolo.» si limitò a commentare.
Il motore esterno di un impianto di condizionamento si mise di colpo in funzione, facendolo sobbalzare. Si accorse di star nuovamente stringendo i denti e si forzò a rilasciare i muscoli della mascella. Si avvide solo in quell’istante che gli dolevano.
Infilò una scaletta che scendeva sotto il livello della strada, sovrastata da un’insegna al neon molto vintage, di quelle con due animazioni che, accendendosi e spegnendosi in sequenza, davano una vaga illusione di movimento.
Il locale era fumoso, malsano, con un forte odore di fritto, alcol, sudore e ormoni. La luce già fioca era ancor più attenuata dalla spessa cappa causata da sigarette e bong, illegali da oramai due secoli. Forme dalle curve conturbanti si muovevano in quella nebbia, leggermente rialzate rispetto al pubblico; un seno, una gamba, un sedere, capelli lunghi, tacchi alti. Il calore era quasi insopportabile e cominciò subito a sentirsi unto, sporco, ma tentò di ignorare quelle sensazioni.
Fece un cenno col capo all’enorme nero seduto su di un minuscolo sgabello accanto alla porta, che lo riconobbe e rispose al suo saluto, scese ancora un paio di gradini coperti di tappeto rosso e si avventurò tra sedie, tavolini e poltroncine, prendendo posto in un divanetto di pelle consunta ad appena un metro dal palco. Una caviglia abbronzata – almeno così pareva nella luce del locale – si impose al suo sguardo, circondata da una catenina percorsa da scariche di luce violetta. Tacchi alti, neri e lucidi, sostenevano un piede affusolato privo di unghie, con tatuato sul dorso un fiore dai petali geometrici di cui non conosceva il nome.
Cal alzò lo sguardo, percorrendo gambe infinite e natiche lucide, l’inguine a malapena coperto, ombelico, ventre piatto, seni scoperti dai capezzoli di metallo scintillante, collo lungo con innesti sensoriali simili al segno lasciato da un sensuale rossetto. Il volto era sottile, dalla bocca enorme, con labbra che rifrangevano la luce, occhi a mandorla che parevano d’argento, naso e orecchie praticamente inesistenti, fronte alta e regale incorniciata da plastocapelli simili a grappoli di bacche dorate, lunghi appena sino alla linea della mascella.
«Tesoro, vuoi un ballo privato?»
Fino a un paio di anni prima andava molto lo “stile rettile”, ma oramai il marziano lo aveva surclassato. Quella spogliarellista era obsoleta, ma ciò non significava che non vi fosse chi apprezzava.
«Magari dopo, grazie.»
Lei gli strizzò l’occhio, si passò un mano su di un seno quasi distrattamente e tornò al palo, muovendo i muscoli della schiena a ogni passo. Anche la spina dorsale era coperta di innesti sensoriali, che esteticamente apparivano come una tratteggiatura nera lunga dalla cervicale al bacino.
Cal si morse un labbro. Obsoleta o no, con tutti quegli innesti era probabile che la spogliarellista riservasse scopate private da far esplodere il cranio peggio del ghiaccio nero.
«Bevi qualcosa, amico?»
Cal si voltò verso la cameriera, una sads munita di una capigliatura bianca a caschetto che le copriva quasi interamente il volto. Dietro ai ciuffi si potevano intravedere occhi enormi, nerofumo, e labbra così incrostate dai piercing da scintillare all’andirivieni della luce. Due meca-cilici stringevano entrambe le braccia della ragazza, stillando lentamente sangue scuro che scivolava lungo i vestiti aderenti, mimetizzandosi con la trama vermiglia che percorreva la giacca e i pantaloni color seppia.
«Un dead diana, senza ghiaccio, polvere rossa.»
«Bene, amico.»
La cameriera si allontanò. Lui li odiava, i sads. Ogni dieci anni circa usciva una di quelle mode i cui aderenti facevano di tutto per dimostrare di essere tristi, di desiderare dolore e morte, di essere dei disadattati della società, gli unici a provare sentimenti con tale forza da esserne sopraffatti. Erano solo vermi senza spina dorsale che tentavano di mettersi in mostra in maniera distorta, che anziché essere veramente originali si conformavano a loro volta a quel gruppo, in cui erano tutti identici.
Pochi istanti dopo la ragazza gli tese un bicchiere colmo di liquido trasparente, denso come crema al whiskey, cui aggiunse davanti ai suoi occhi un pizzico di polvere rossa.
«Ti va un lavoretto di bocca mentre bevi, amico?»
Lui la guardò, interdetto. Una fantasia splatter gli attraversò fugace la mente, mentre fissava i piercing.
«Credevo che voi sads non amaste il contatto con la gente.»
«Il mio corpo è solo la tomba della mia anima. Io ci sputo sopra, ne faccio ciò che voglio.»
Parlava meccanicamente, come stesse recitando una parte studiata a memoria.
«No, grazie.»
«Come ti pare, amico.»
Cal le fece un cenno e mescolò il drink a lungo, osservando un’asiatica dai capelli rossi e la pelle d’avorio, gli occhi a mandorla che rifulgevano d’azzurro, mentre roteava sensualmente attorno ad un palo a led, che se veniva fissato con troppa intensità poteva causare crisi epilettiche.
Oramai l’impronta somatica degli orientali aveva in gran parte soppiantato quella occidentale, a pari merito con quella africana, ed era raro vedere persone con tratti europei in giro. In virtù di ciò, i cosiddetti “bianchi”, a prescindere che fossero di matrice irlandese, italiana, sassone, latina o tedesca erano considerati automaticamente belli e desiderabili, per la regola del “meno ce n’è, più vale”.
Si toccò i capelli, neri e lucidi, tipici dell’eredità giapponese che aveva nel sangue. Sua madre, in realtà, era russa, ma si notava più in sua sorella. La maggior parte di quelli che conosceva – e che poteva osservare attorno a sé – preferivano cambiare le proprie caratteristiche verso i vent’anni: nuovi capelli, spesso chiari, nuovi impianti oculari, spesso nuovi tratti somatici. Andava di moda rifarsi non solo zigomi e seno, ma anche le arcate sopraccigliari e togliersi le unghie, dando l’effetto “bambola di porcellana” promosso dall’ideatore della nuova chirurgia all’avanguardia, Ben Wu.
«Lei è il signor Zhou?» chiese con voce incolore la cameriera.
Di nuovo lei, ancora tra le palle.
«Che cazzo c’è?» chiese con malo modo.
La ragazza non fece una piega.
«Qualcuno la cerca al videofono.»
Cal alzò le sopracciglia. Chi sapeva di poterlo rintracciare lì? Sua sorella? No. I suoi genitori? Figuriamoci. Ai? Ma stiamo scherzando? Qualche amico dei marine, forse, ma non ricordava di aver mai parlato con qualcuno di quel locale. Praticamente il novanta percento delle attività che vi si svolgevano erano illegali e continuavano a essere portate avanti solo grazie alla quantità d’unto che il fumo, la droga e il sesso spalmavano sulle mani giuste.
Si alzò di malavoglia, ora pentito di aver declinato l’invito della spogliarellista rettile, e seguì la cameriera con la testa incassata tra le spalle, leggermente discosto rispetto alla sua scia per non calpestare le goccioline di sangue che perdeva. Certi ci andavano matti, per quella moda; la chiamavano dropping. Incredibile quanta gente uscisse di testa alla vista di un po’ di sangue.
Entrò in una cabina grande appena a sufficienza per rimanervi in piedi, dove un ologramma a bassa definizione era sospeso un po’ troppo in basso rispetto al suo volto. Un uomo lo osservava con un sorriso plasticoso da qualche ufficio, con un nuovo modello di occhiali multifunzione appollaiati sul naso.
«Il signor Zhou, presumo.»
«Lei presume bene, ma non penso di sapere con chi sto parlando.»
«Mi scusi se la disturbo mentre… si diverte, signor Zhou, ma ho per lei una proposta che potrebbe trovare interessante. Il mio nome è Killington.»