Altro che Crisi del Settimo Anno: Homeland è più in forma che mai

in #ita6 years ago

Quando il 2 ottobre 2012 Showtime mandò in onda il pilot della sua nuova serie di punta fù una piccola rivoluzione per il genere Spy, un degno erede di 24 era appena arrivato, rivoluzionandone i classici topoi e con un Jack Bauer in gonnella più folle e disfunzionale. Il mondo conobbe Homeland, il mondo si innamorò di Carrie Mathison e guardò per la prima volta il terrorismo islamico sotto una luce diversa, riflessa negli occhi del marines Nicholas Brody.

La prima stagione di Homeland fu deflagrante come una bomba all'idrogeno al centro di un villaggio, accecante come la scintilla emessa da una granata appena esplosa, chirurgica come un piccolo drone militare. Tutto quello che eravamo abituati a vedere in una spy story fu ribaltato completamente. Non sapevamo più per chi parteggiare, non riuscivamo a stabilire quale fazione fosse più folle e al tempo stesso quale avesse più ragioni da rivendicare, in nome di Dio o della patria o semplicemente in nome delle proprie convinzioni.

Abituati come eravamo a conoscere il nemico, a sapere chi erano i buoni e chi erano i cattivi, abituati come eravamo a disumanizzare gli attentatori ed eroizzare gli attentati, ci ritrovammo nel pieno di una guerra a distanza dove a voltarsi contro la propria patria era proprio uno degli eroi. Un marine decorato affiliato ad Al Qaeda, nulla di più spaventoso e pericoloso, nulla di più complesso. La stratificazione dei personaggi, la loro caratterizzazione era talmente ben riuscita da renderci ad ogni modo partecipi delle scelte di Nick e Carrie, con decine di personaggi di contorno che via via sarebbero diventati sempre più importanti nell'economia della storia.

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La prima stagione di Homeland fece incetta di premi, continuò a convincere nella seconda e si assunse dei rischi non sempre ben calcolati nella terza e nella quarta, perdendo consensi e ricevendo critiche sempre più aspre. Ma quei sacrifici compiuti nella stagione 3 e 4, quelle scelte coraggiose che per molti erano sembrate folli e out of charachter altro non erano che concime per le stagioni a venire. E cosi Homeland riprese un ritmo infernale nella stagione 5, suggellando il tutto con una sesta annata eccellente. Il segreto non era stato quello di tornare sui suoi passi bensi quello di continuare a cambiare, di continuare a rigenerarsi, mettendo a rischio ogni suo personaggio, spogliandolo della propria invulnerabilità, instillando nello spettatore il dubbio che tutti fossero in qualche modo complici e che tutti fossero in qualche modo sacrificabili. I nuovi eroi erano persone comuni pronte a tutto pur di difendere la democrazia e non super uomini indistruttibili, che si esaltavano di fronte ad un ordigno atomico o che uscivano indenni da sparatorie infinite. NO. I nuovi eroi erano una mamma single e bipolare, eternamente in bilico tra la voglia di essere una buona madre in una vita normale e quella di essere un agente operativo dall'intuito unico e le skill tattiche introvabili. I nuovi eroi erano incarnati da un veterano di guerra ormai semidisabile che aveva dato tutto per la propria nazione sacrificando gli affetti per tutta la vita o un vecchio direttore saggio e cocciuto sempre in anticipo sui tempi. Spesso abbiamo assistito a morti tragiche e inaspettate ma che ci son sembrate sempre reali, sempre plausibili e mai forzate, anche quando di mezzo c'era la vita del presidente o il destino di un'intera nazione.

La stagione 7 di Homeland potrebbe rischiare di passare in sordina, vista l'età e vista la gamma immensa di prodotti seriali a disposizione oggi molto più che nel 2012. Sarebbe un peccato, un oltraggio, quasi una vergogna. Lo sarebbe perchè la stagione appena conclusasi oltre a generare picchi di qualità e azione ai massimi livelli ha saputo leggere la contemporaneità come poche altre serie han dimostrato di saper fare. La politica internazionale tutta è stata il teatro di questa settima stagione e sin dall'inizio di quest'annata abbiamo avuto uno strano effetto Nostradamus. Solitamente vedendo una serie avvertiamo un effetto dejavù rispetto ad eventi di cui abbiamo letto sui giornali o visto in tv. Con questa stagione di Homeland abbiamo vissuto l'effetto contrario. In alcune vicende di cui abbiamo sentito parlare in tv abbiamo avvertito quel classico effetto dejavù. Quella sensazione di già visto era Homeland.

I creatori della serie sono stati talmente abili nell'analizzare la scena internazionale attuale da generare molte situazioni non solo plausibili ma addirittura anticipatorie di piccole storie che nella realtà sono state evidenziate nelle ultime settimane. 

In particolare ci siamo trovati di fronte ad una democrazia americana al suo punto più basso, preda di malumori interni, dissidenti e corte marziale. L'escalation di tesi complottistiche da una parte e di pugno di ferro dall'altra, dopo lo sventato attentato alla presidente Keane nell'episodio finale della stagione scorsa, ha avuto risvolti preoccupanti e sanguinosi. Risvolti che si sono manifestati completamente all'interno del suolo statunitense con un nemico da combattere non più esterno ma stavolta interno e per questo più subdolo e difficile da estirpare.

Ma la serie dopo una prima tornata di episodi incentrati sulla battaglia intestina incarnata dal dissidente O'Keefe ha saputo reindirizzare il problema facendoci credere che dietro tutto ci fosse la mano della madre Russia, salvo poi saperci dirottare altrove e poi ritornare indietro, sempre senza forzare, sempre senza esagerare ma immergendoci dentro una storia fatta di complotti, spionaggio, controspionaggio, diplomazia, politica in tutta la sua sublime viscidezza e la sua spietata cecità.

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Siamo passati attraverso episodi magistrali quali "Like a Bad a things", "Species Jump" e "Useful idiot" fino ad arrivare al dittico di episodi adrenalinici che hanno preceduto il season finale.

Ed è proprio sulla puntata finale che Alex Gansa e Linka Glatter hanno suggellato quanto di buono avevano seminato negli 11 episodi precedenti.

Abbiamo assistito ad una summa di quello che Homeland ha saputo dimostrare in questi anni. Nel sacrificio di Carrie c'è stata tutta la passione di una donna che ha sacrificato il rapporto con sua figlia in questa stagione, a proposito che pugno nello stomaco la puntata che vede Carrie prendere atto della propria natura avventurosa a discapito dell'amore verso sua figlia, per correre incontro ai pericoli pur di tentare di salvare la sua patria e la democrazia con la D maiuscola. La sfrontatezza della Mathison ha salvato il paese, e poco importa se nessuno saprà mai che è stata quella donna a salvare il mondo, lei ha agito per senso di dovere, per amor di patria, per dare sfogo alla propria anima da combattente 2.0 del nuovo millennio.

Nel volto di Saul e nel suo tentativo di liberare la sua adepta abbiamo visto tutto l'amore che pervade la serie fin dagli albori, e che spesso abbiamo avuto modo di apprezzare negli amori disfunzionali fra Carrie e i suoi prodi amanti, colleghi o amici come Brody o Quinn solo per citarne alcuni fino ad arrivare a Dante.

Nella spietatezza e risolutezza di Yevgheny e di tutto il carrozzone russo abbiamo avvertito il pericolo per la democrazia occidentale ma anche le ragioni e l'amore per la propria di patria.

Nell'avidità e la codardia del senatore Paley erano racchiusi tutte le contraddizioni della politica fatta per gloria e non per amore.

Nelle scelte del vicepresidente Warner abbiamo intravisto un barlume di speranza per il mondo, un mondo guidato da uomini buoni e saggi, guidati dal senso del dovere e non dal dovere dell'arricchimento personale.

Ma è con il discorso finale della figura più controversa e combattuta di questa settima stagione che abbiamo goduto di un ultimo geniale, semplice ed efficace colpo di coda. Il monologo del presidente Elizabeth Keane alla nazione è roba che potrebbe restare negli annali e che merita una menzione, un approfondimento, un elogio per il tentativo che Homeland ha voluto effettuare per dare un senso alla narrazione oltre che un'azione carica emotivamente e politicamente di tanti significati.

Difficile spiegare quanto quel monologo abbia trasmesso, ecco perchè ho scelto di riproporlo integralmente, consigliandovi ovviamente di rivederlo dalla viva voce di una splendida Elizabeth Marvel:

  For over 200 years we have had an angel on our shoulder in this country. Lately, I’ve been wondering where she’s gone. Look around, we’re in trouble. Our democracy is, and it is not Russia’s fault. It is ours. We are the ones killing it. When we think of democracies dying, we think of revolution, of military coups d’état, of armed men in the streets, but that’s less and less how it happens anymore. Turkey, Poland, Hungary, Nicaragua, the Philippines. The democracies now die when we’re not looking, when we’re not paying attention…the end arrives slowly, like twilight. And at first, our eyes don’t notice.I spent much of the afternoon with Vice President Warner, who I have come to know as a deeply honorable and decent man. [At this point in her speech, Wellington looks back at Warner, only to find that Warner’s left the room.] He and I agree… [This country is] locked in an existential conflict over race and identity and culture. The signs are everywhere and flashing red. Something must change. Something bold must be done. I don’t pretend to have all the answers, but I do know I have become part of the problem. I open my mouth and half of you hear only lies. That’s not only unacceptable, but unlikely to change anytime soon. No single leader can save a democracy, but without a leader you can trust, no democracy can be saved.  


Uno di quei discorsi semplici e diretti, fatto completamente a braccio, guardando negli occhi l'intero popolo americano attraverso una telecamera.

Una chiamata alle armi per salvare la democrazia, e stavolta le armi non sono i droni o le bombe, i mezzi non sono cacciabombardieri o navi militari ma è l'impegno civico di ogni singolo cittadino, un invito a tutti per provare a collaborare, a costruire anzichè distruggere, a creare ponti e non nuove voragini.

Un discorso vibrante ed emozionante, reso ancora più forte e significativo dall'atto che segue alle parole. Dimissioni improvvise ma ponderate, sentite e non dovute ma profondamente necessarie per una donna che si mette da parte per mettere davanti a tutto il proprio popolo, la propria patria, la democrazia tutta. Un esempio per tutti, in tempi in cui la poltrona conta più dell'istituzione, il potere più della funzione da ricoprire, le chiacchiere più dei fatti, un tweet più di un decreto.

Dicono che al settimo anno in ogni rapporto sopraggiunga una crisi totale. Con Homeland il settimo anno è forse stato il più bello, un nuovo e costante innamoramento per una serie che ha saputo rinnovarsi continuamente, senza cambiare pelle, senza cambiare anima ma abbracciando il mondo che la circondava, rileggendolo e vivendolo sotto una chiave spy ma profondamente e sempre più chirurgicamente umana, sociale e globale.

Homeland sembrava morta al terzo anno. Oggi è viva e vegeta e più in forma che mai, pronta a dare una pista a tutte le sue sorelle, vere o presunte. La prossima annata sarà l'ultima, e quello si che potrebbe essere una guerra difficile da vincere per lo spettatore, separarsi da Saul e Carrie e tutto ciò che rappresentano sarà difficile, facendoci sentire per un momento degli Useful Idiot.

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