Storia Breve (ma non troppo): La Ragazza Con il Cappotto Rosso. (Capitolo 1 di 2)

in #ita7 years ago

La ragazza con il cappotto rosso cadde a terra. I suoi polsi erano così sottili e le catene troppo pesanti.

“Come ci si sente a non potersi muovere?"

La ragazza col cappotto rosso aveva la pelle bianca e un viso gentile.

“come ci si sente a perdere la propria libertà così di colpo, senza preavviso ed eternamente?".

Lei lo guardava dal fondo della scala, sembrava un re cervo, di quelli che se ne stanno in piedi sulla fredda roccia, con uno zoccolo più in alto dell’altro e trafiggono il cielo con le corna ricurve, ma i suoi occhi no, quelli non erano da cervo poiché l'odio è una bestia umana.

Cadevano grosse gocce dalla storpia crepa nel muro, scivolavano come lumache ai lati della stanza. “Addio” le disse sbattendo la porta, come se quel suono sordo potesse conferire maggior peso alle sue parole.

La ragazza col cappotto rosso si era accovacciata al muro, tremava e guardava la luna, al di là della magra crepa il fango intanto divorava I suoi vestiti come dopo la bassa marea il mare inghiotte la terra.

Quando agli abitanti di Villacorta veniva chiesto dove fosse Cosmo Ferri loro sorridevano con sguardi di intesa e rispondevano che era andato lontano. Filippo Giuliani si ricordava di quella volta che Cosmo, nel vecchio granaio, gli aveva detto che non sarebbe più tornato. Gli aveva raccontato che ogni notte faceva lo stesso sogno, sognava di risvegliarsi in un letto in mezzo ad un campo con una donna sconosciuta che però lui sapeva di amare e ad un certo punto passava un treno, sul quale lui era sicuro, ci fosse un’opportunità. Ne era certo come sapeva di essere certo di amare quella donna sconosciuta al suo fianco che respirava nel suo cuscino con soffio leggero. Gli raccontò che lui provava a svegliarla ma lei non lo sentiva e il treno fIschiava, stava partendo E lui lo prendeva.

Raccontava che dal finestrino vedeva la donna svegliarsi, tastare le coperte con le dita lunghe e la bocca socchiusa in un grido muto, Cosmo diceva che la donna non poteva vedere il treno, che per lei il treno non esisteva e che il treno lo portava da un’altra donna, in altra città, che lui era certo amava e che la città era piena di gente con occhi buoni, ma poi passava un altro treno e lui lasciava la donna con la bocca socchiusa e gli sguardi buoni diventavano cattivi.

Da più di cinquant’anni Filippo Giuliani non aveva più visto Cosmo e di conseguenza nemmeno le case, le cime e i boschi di Villacorta l'avevano più rivisto, sì perché Filippo era rimasto li, fedele alla casetta con il tetto di pietra e al legnoso roteare del vecchio mulino in riva al fiume.

Una mattina delle tante Filippo, seduto sul dondolo, si esercitava a guardare lontano, per allenare la vista che, un tempo , le ragazze del villaggio gli lodavano al ritorno dalla caccia. Fu quasi per caso che notò l’uomo nel campo attraversare le spighe con passo stanco ma deciso, anche Pick il cane cieco, quando i passi si fecero pÌù vicini, rizzò le orecchie e abbaiò verso un punto lontano.

Quando l’uomo gli fu davanti, a Filippo mancò il respiro, se non fosse stato per la barba lunga e le mani sporche di terra, avrebbe potuto giurare su tutte le sue mucche che Cosmo non era cambiato di un millimetro, la sua pelle era levigata come un tempo, i suoi capelli folti e scuri.

“Hai perso il tuo treno, Cosmo? “ gli disse Filippo con voce gentile, Cosmo sorrise, era un sorriso d’intesa, quello che si fa ad un amico che ricorda una cosa di un tempo passato. Cosmo gli raccontò di aver girato il mondo , di aver toccato la vita, poi gli parlò di Lisa. Gli raccontò che come sempre nei suoi sogni si era risvegliato in un campo di grano, ma quella volta, quando si era girato per vedere il volto della donna che gli stava affianco, aveva trovato un melograno dorato, i cui semi rossi erano sparsi sulla coperta vuota. Non gli dispiaceva che non ci fosse nessuna donna nel suo Ietto, si odiava per lo sguardo vuoto che le lasciava quando partiva.

Ma poi si era sentito chiamare, dall’altra parte del campo addormentato in piedi, vicino ai binari, stava una ragazza rossa con la sua valigia in mano.

“Muoviti! O perderemo il treno!” Io disse come se quelle parole fossero una consuetudine, come se fossero qualcosa di intimo che faceva parte di loro. Lui si era alzato sbigottito e goffamente era corso verso il treno che, impaziente, fischiava fumate bianche che avrebbero fatto invidia alle nuvole di qualsiasi cielo.

Cosmo raccontò che lui e Lisa avevano scoperto il mondo insieme e che ogni mattina lei lo svegliava con voce gentile, seduta dall’altra parte del campo con le gambe incrociate e lo sguardo di chi sa come arrivare per prima.

Ma poi un giorno Lisa aveva cominciato a diventare vecchia.

Gli raccontò che si svegliava mentre lei stava ancora attraversando i binari e la vedeva trascinare la valigia ai Iati della strada con la schiena curva, come se la schiena fosse la valigia stessa.

Quando lei chiamava il suo nome, con voce sottile, lui faceva finta di essere ancora addormentato, poiché guardando i suoi occhi rivedeva l’urlo muto delle altre donne, essi emanavano quella bellezza straziante di quei fiori, divorati dagli insetti.

Poi gli raccontò di quella notte che di nascosto l’aveva vista dormire dall’altra parte del campo ai lati dei binari, poi lei gli avrebbe detto che lo aveva fatto perché aveva paura che il mattino dopo sarebbe stata troppo stanca e non sarebbe riuscita a svegliarsi in tempo e lui l’avrebbe lascrata li muta, come tutte le altre donne.

Lui le aveva baciato la punta delle dita fredde e guardandola negli occhi le aveva promesso che non sarebbe mai più partito, Che sarebbe restato lì a riscaldare le sue mani per tutta la vita.

Fu quella notte, gli raccontò Cosmo, che dopo il |avoro non era tornato a casa, era salito da solo sul treno con I' intento di non tornare. Gli raccontò che da solo, guardando fuori del finestrino, della pesante tenda rossa, non aveva fatto altro che pensare a lei, ma non la voleva immaginare al tavolo della loro Casa cava come il tronco di un albero sventrato, non voleva pensare alle sue mani gelide, ai suoi occhi vuoti che, un tempo, l’avevano reso felice.

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