Il degrado del mare

in #ita6 years ago

Marzo 1989: la petroliera Exxon Valdez nel Golfo dell’Alaska disperde 42.000 tonnellate di greggio in mare, 1.900 km di costa inquinate. Circa 250.000 uccelli marini, 2.800 lontre, 300 foche, 250 aquile di mare testa bianca, 22 orche e miliardi di uova di salmone e aringa muoiono a causa dell’incidente. Il governo degli Stati Uniti decide di inasprire le norme di sicurezza per le petroliere e di far pagare alle compagnie proprietarie i costi di bonifica.

Aprile 1991: la petroliera Haven perde 50.000 tonnellate di petrolio a ridosso della costa ligure. Il mare di quella zona è ancora oggi inquinato, e l’episodio viene ricordato come il più grave disastro ambientale nel mar Mediterraneo.

Dicembre 1999: la petroliera Erika si spezza durante una tempesta e sversa nei mari della Gran Bretagna 13.000 tonnellate di greggio, contaminando almeno 400 km di costa. Vengono recuperati circa 250.000 uccelli morti.

Gennaio 2002: la petroliera Jessica di arena davanti all’isola di San Cristobal e disperde al largo delle isole Galapagos una quantità sconosciuta di petrolio, è un disastro ecologico. Il fragile ecosistema scoperto e descritto da Darwin viene minacciato. Si teme che tutt’ora i livelli di inquinamento siano alti e che parte degli inquinanti stia ancora fuoriuscendo dal relitto.

Novembre 2002: La petroliera Prestige disperde al largo della Galizia 60.000 tonnellate di petrolio. L’Unione Europe segue l’esempio di Francia e Spagna e inasprisce le norme di sicurezza relative alle petroliere.


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Petroliera Exxon Valdez nel Golfo dell'Alaska.


Il degrado del mare

I dati sopra riportati richiamano alcuni tra gli innumerevoli incidenti petroliferi che hanno provocato elevati danni all’ecosistema marino in anni recenti. Nonostante questi episodi abbiano conseguito effetti che possono ancora essere apprezzati a “occhio nudo”, i danni provocati dalla perdita di petrolio una percentuale minima per quanto riguarda i fattori che causano il rapido e inesorabile degrado dell’ambiente marino, inteso come l’insieme dei fattori di origine antropica che modificano la naturale condizione dell’ecosistema. Il degrado dell’ambiente marino provocato dalle attività umane è un fenomeno alquanto diffuso e purtroppo in aumento, in correlazione alla crescente presenza umana in mare. Sono coinvolti, in maniera più o meno importante, tutti gli ecosistemi. Naturalmente la zona costiera risulta l’ambiente maggiormente influenzato da questo progressivo degrado; tuttavia nessun ecosistema oggi ne è totalmente immune. Con il passare del tempo e con l’aumento della capacità invasiva umana, sostenuta dal progresso tecnologico, anche gli ambienti più lontani dalle fasce costiere iniziano a mostrare oggi segni di pesante stress.
Dobbiamo inoltre prendere atto che moltissimi ambienti di primario interesse scientifico e naturalistico sono collocati proprio a ridosso delle fasce costiere: il 58 % delle principali barriere coralline del mondo, il 64% delle foreste di mangrovie e il 62% dei maggiori estuari sorge a meno di 50 km da centri urbani di 100.000 abitanti o più.
In questi luoghi la costruzione di porti, la crescente urbanizzazione, lo sviluppo turistico, l’acquacoltura, lo sviluppo industriale comportano inevitabilmente dragaggi, escavazioni, bonifiche e grandi opere costiere, che stanno causando l’erosione delle coste, l’aumento della frequenza delle inondazioni e il peggioramento della qualità delle acque. Tutto ciò, naturalmente, si riflette in un aumento di rischi per la salute umana e per le attività ad essa connesse. L’insieme di questi fattori è stato decisivo nel trasformare la zona costiera nell’ecosistema chimicamente più alterato del pianeta. Purtroppo, queste alterazioni sono spesso irreversibili.

Inoltre, anche le attività praticate in località distanti dal mare possono provocare effetti negativi su di esso. Fonti di inquinanti terrestri sono collegate con i bacini idrici per mezzo dei corsi d’acqua, e gli inquinanti possono sfruttare il dilavamento durante le piogge e il trasporto atmosferico per muoversi agevolmente. Nel complesso, le fonti terrestri sono responsabili di più della metà dell’inquinamento del mare.

Ma cosa buttiamo effettivamente nei nostri mari?


Sostanza organica e simili

Molto spesso, inoltre, i nostri scarichi sono ricchi di sostanza organica, di fosfati e di composti azotati, che fungono da nutrimento per diverse piante acquatiche. Elementi come il fosforo e l’azoto risultano di norma scarsi in natura e, per questo, limitano la crescita degli organismi vegetali. È chiaro, quindi, che scaricando questi composti nell’ambiente permettiamo a questo tipo di organismi di crescere più di quanto sarebbero in grado di fare in condizioni naturali. Diversamente da quanto si sarebbe portati a credere questo non è in alcun modo positivo per l’ambiente. La crescita esponenziale degli organismi vegetali in acqua, infatti, altera l’equilibrio dell’ecosistema e conduce, sul lungo periodo, alla drastica riduzione dell’ossigeno disponibile nei corpi idrici. La diminuzione di ossigeno, a sua volta, causa spesso il peggioramento della qualità dell’ecosistema eliminando, di fatto, la maggior parte della biodiversità.


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Marea rossa del 2005 al largo di La Jolla, USA.

Emblematico in questo senso è il caso delle maree rosse, molto probabilmente causa di morie di megattere e tursiopi. Questo fenomeno è stato riconosciuto come un problema legato all’inquinamento in Europa e in Nord America verso la metà del XX secolo e da allora è andato crescendo.


PCB (Policlorobifenili) e metalli pesanti

Oltre a fosforo e azoto, possiamo osservare un’ampia gamma di agenti in grado di influenzare la biodiversità marina. Queste possono variare dalle sostanze tossiche, ai detriti solidi fino al rumore.
La prima categoria è caratterizzate da composti come i PBC (sostanze chimiche prodotte da processi industriali) e i metalli pesanti. Questi ultimi, in particolare, sono in grado di entrare negli organismi per via alimentare, o attraverso l’acqua e l’aria. Alcuni metalli pesanti (per esempio rame, selenio, zinco) sono essenziali in piccolissime concentrazioni per i processi biochimici dei viventi, tuttavia al di sopra di soglie molto basse divengono tossici. I metalli pesanti sono presenti naturalmente nel mare e pertanto la loro introduzione nelle reti trofiche non è necessariamente una conseguenza di attività umane, ma è indubbio che le loro concentrazioni crescenti siano invece ricollegabili alle attività antropiche. Inoltre, sono proprio gli usi industriali di alcune di queste sostanze a renderle particolarmente pericolose per la biodiversità marina. Infine, molte di queste sostanze tossiche hanno la capacità di accumularsi all’interno degli organismi in concentrazioni crescenti; l’accumulo diventa sempre più importante mano a mano che si scala la rete trofica.


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I PCB sono comunemente utilizzati nei circuiti elettrici.

Questi composti, se accumulati in modo incontrollato, sono in grado di impattare negativamente su intere popolazioni. In particolare, possono provocare una depressione generalizzata del sistema immunitario e possono stravolgere le funzioni riproduttive. Tra il 1990 e il 1992 una epizoozia di morbillivirus si è diffusa tra le stenelle striate del Mediterraneo; esplosa nelle acque spagnole nel 1990, si è poi diffusa negli anni seguenti, nel corso di tre attacchi apparentemente collegati tra loro, nel Tirreno, nello Ionio e infine nell’Egeo. Analisi tossicologiche eseguite sugli esemplari vittime della moria hanno rivelato livelli di PCB estremamente elevati. Queste sostanze, note per la loro capacità di inibire la funzione immunitaria nei mammiferi si pensa abbiano potuto avere un ruolo nel verificarsi della epizoozia.


POPs (Persistent Organic Pollutants)

Si tratta di sostanze organiche di sintesi, prodotte quindi artificialmente, molto difficili da degradare e che spesso risultano tossiche e cancerogene. Comprendono composti come il DDT, che nello scorso secolo è stato abbondantemente utilizzato in tutto il mondo.
Test in laboratorio hanno confermato che numerosi POPs hanno il potere di alterare le funzioni ormonali e i processi riproduttivi in numerose specie di predatori di vertice nel Mediterraneo. Tra questi sono indicati i pesci spada, i tonni rossi, le stenelle striate, i tursiopi, i delfini comuni e le balenottere comuni.


Detriti solidi e plastiche

Un altro elemento in grado di alterare le funzioni fisiologiche degli organismi marini e che partecipa attivamente nel processo di degradazione dell’ambiente marino sono i detriti solidi. Con questo termine ci riferiamo a plastiche e frammenti di attrezzi da pesca. Una grande quantità di rifiuti plastici sono immessi nell’ambiente marino da decenni, molti dei quali sperimentano così l’opportunità di entrare in contatto con i mammiferi marini, con i pesci, con gli uccelli e con le tartarughe, disperdendosi così nei mari sia in superficie che nelle zone profonde. Molti di questi animali finiscono per ingerire i frammenti di plastica, scambiandoli per qualcosa di commestibile o “respirandoli” attraverso i rispettivi sistemi respiratori; questo spesso provoca la morte dell’animale per ostruzione del tratto digestivo, e conseguente inedia, o per soffocamento. Tra le specie più a rischio troviamo proprio le tartarughe.
Anche pezzi di rete e altre parti di attrezzi da pesca (lenze, ami, sagole, nasse) abbandonati dai pescatori in mare possono rappresentare un pericolo. Possono impigliarsi nel corpo degli organismi impedendone il movimento o possono arrestare a circolazione degli arti nei casi più gravi.
Il problema delle plastiche, inoltre, è attualmente oggetto di intense ricerche in quanto, rappresentando un campo relativamente nuovo, non è ancora chiaro quali potrebbero essere gli effetti sugli organismi. Sembra ormai certo che gli oggetti di plastica abbandonati rilasciano col tempo micro e nano plastiche che sono in grado di penetrare all’interno degli animali, e di accumularsi. Questi piccoli frammenti potrebbero funzionare come vettori per altri agenti inquinanti che normalmente non vengono assunti dagli organismi.


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Gli studiosi dell’Università di Zagabria hanno effettuato l’autopsia su 54 tartarughe scoprendo che 1/3 di questi 54 aveva frammenti di plastica nel tubo digerente. L’Epedition M.E.D. 2010/2013 è una campagna scientifica contro l’inquinamento ambientale della plastica nel Mediterraneo. Attraverso l’analisi di numerosi campioni è stato stimato che circa 250 miliardi di microframmenti di plastica “nuotano” nelle acque superficiali del Mediterraneo, sottolineando l’importanza di questo fenomeno, assolutamente da non sottovalutare. Nel 2017 il WWF ha affermato che la prima generazione di plastica introdotta nel 1950 è ancora con noi: la persistenza nell’ambiente marino per quanto riguarda materiale plastico va dai 400 ai 600 anni. Il 95% dei rifiuti marini è costituito da materie plastiche che inquinano coste, superfici e fondali marini.


Inquinamento acustico

L’inquinamento acustico riveste notevole importanza soprattutto per quegli animali marini, come i cetacei, che si basano fortemente sul senso dell’udito per navigare e comunicare, e che quindi sono particolarmente sensibili al suono. In mare esiste una grande varietà di suoni e rumori, alcuni di origine naturale (pioggia, vento, ghiaccio, terremoti), ma la maggior parte sono ormai di origine antropica. In questa ultima categoria risiedono il rumore diffuso di sottofondo, causato dal traffico navale, e il rumore puntiforme o acuto (esplosioni, sonar, esplorazioni sismiche). Il rumore diffuso ha come principale effetto quello di diminuire la distanza di comunicazione tra individui che usano il suono per comunicare (Masking Effect), e di provocare allontanamento, disagio, disturbi comportamentali e stress. Il rumore acuto, invece, può causare perdita di sensibilità uditiva temporanea o permanente, barotraumi agli apparati uditivi e ad altri organi, e perfino la morte degli animali. Questo disturbo è stato sfortunatamente comprovato nel settembre del 2002 alle isole Canarie, dove 18 esemplari di cetacei si spiaggiarono a seguito delle manovre militari nella zona, a causa dell’utilizzo intensivo di dispositivi sonar.


Schiume, patine e oli

Un altro problema attualmente in forte crescita è legato alle sostanze che portano alla formazione di schiume e patine oleose sulla superficie dell’acqua. Entrambi questi fenomeni limitano lo scambio di gas tra l’ambiente acquatico e l’aria, creando situazioni di anossia. Le schiume, inoltre, filtrano i raggi solari diminuendo la quantità di luce che riesce a raggiungere gli organismi fotosintetici acquatici, facendo ulteriormente calare il tenore di ossigeno. Le patine, infine, possono depositarsi sugli organismi alterandone gli scambi osmotici con l’ambiente circostante.


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Ricerche e programmi di tutela

Sono ormai numerosi in tutto il mondo i programmi e le campagne che si pongono come obiettivo quello di fermare il degrado dell’ambiente marino e di avviarne il recupero. Purtroppo, se sotto certi punti di vista sembra esserci una presa di coscienza globale del problema, dall’altro i ricercatori concordano sul fatto che la portata di questo imminente disastro sia tuttora sottovalutata, soprattutto dalle persone comuni.
È abbastanza difficile, infatti, rendersi conto di quanto stia accadendo senza indagare a fondo: le nostre spiagge vengono grossolanamente ripulite per attrarre turisti e lo stesso accade con le zone di mare immediatamente adiacenti alle coste. Quando però decidiamo di buttarci in acqua non abbiamo quasi mai coscienza di cosa vi sia effettivamente disciolto, soprattutto nella misura in cui questi composti non hanno colore, non hanno odore, o sono troppo piccoli per essere visibili. I nostri mari, quindi, ci appaiono spesso tutto sommato puliti.
Molto diversa, però, è la storia raccontata da chi ogni giorno è a contatto col mare. In una recente intervista, il navigatore Giovanni Soldini ha riconosciuto che attraversando gli oceani è riscontrabile anche a occhio nudo l’aumento esponenziale degli scarichi umani. Lo stesso viene riportato dai pescatori e dai ricercatori di diverse nazioni.

Il mare ci appare spesso vasto e sconfinato, e questa è probabilmente la ragione che ci ha fatto sentire autorizzati a riversarci i nostri scarti. La verità però è un'altra: il mare non solo non è sconfinato, ma non è neppure così vasto, se paragonato alla quantità di rifiuti che ogni giorno pretendiamo di riversarci dentro. È difficile, forse impossibile, porre rimedio a quanto abbiamo fatto fino ad ora; e se anche delle soluzioni fossero possibili, nessuna è applicabile nell’immediato.
Quello che possiamo, anzi, che dobbiamo fare immediatamente è diminuire l’impatto antropico attraverso il quale, ogni giorno, roviniamo l’ecosistema probabilmente più importante del pianeta.


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Immagine CC0 Creative Commons, si ringrazia @mrazura per il logo ITASTEM.
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Bibliografia

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  • David Moretti, Len Thomas, Tiago Marques, John Harwood, Ashley Dilley, Bert Neales, Jessica Shaffer, Elena McCarthy, Leslie New, Susan Jarvis, Ronald Morrissey (2014). A Risk Function for Behavioral Disruption of Blainville’s Beaked Whales (Mesoplodon densirostris) from Mid-Frequency Active Sonar.
    https://doi.org/10.1371/journal.pone.0085064
  • Anthony L. Andrady (20011). Microplastics in the marine environment.
    https://doi.org/10.1016/j.marpolbul.2011.05.030
  • Gulland and Hall (2005). The role of infectious disease on influencing status and trends.
    Articolo completo
  • Dati Protezione Civile sull'inquinamento dei mari.
  • Video “Dalla parte del mare”
  • Wikipedia PCB
  • Wikipedia POPs
  • Wikipedia incidenti petroliere.

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