SPORT IN GIALLO

in #ita5 years ago (edited)

Era una calda estate del 1970.
Pedalavo in giro per la Francia già da alcune settimane, in sella alla mia Caiwan, la bicicletta che la squadra belga aveva scelto di assegnarmi in quel Tour de France. Era la 57esima edizione ed era la prima volta per me in un grande giro. Ero emozionato ogni volta che guardavo il gruppo dei corridori, la mia bicicletta e la mia squadra. Loro avevano creduto in me ed io non avrei potuto deluderli. Ero consapevole di quali fossero i miei mezzi: nella mia famiglia, a Modena, mi dicevano sempre che avevo imparato prima a pedalare che a camminare. Non so se fosse stato vero, ma certamente la bicicletta, una volta che ero in sella, la percepivo come parte integrante del mio corpo, delle mie gambe e della mia schiena, che tenevo spesso inarcata sul manubrio ricurvo.
Quella mattina eravamo in alta montagna, a Gap, ma la cappa estiva e l'assenza di vento rendevano già l'aria irrespirabile. Sembrava di essere in quelle pianure nelle quali mi allenavo quando tornavo a casa. Sam Van Hosse, il capitano della mia squadra, venne da me e con una confidenza quasi da confessionale, tipica di un prete confessore ed il suo discepolo, mi interrogò su come stessi quel giorno. Gli risposi che mi stavo bene e che avevo ancora molta forza nelle gambe per poter supportare la squadra. Lui mi disse che la squadra credeva in me e quel giorno avrebbero dato il tutto per portarmi a vincere la tappa a Mont Ventoux.
Loro credevano in me ed avrebbero impostato la tappa per portarmi primo al traguardo. La mia vittoria però incappava in un altro ciclista; un uomo leggenda; il cannibale lo chiamavano. Eddy Merckx era il suo nome ed io, giovane ed inesperto quel giorno, tra poche ore, mi sarei dovuto scontrare proprio con lui. Davide contro Golia.
Avevo paura, ma allo stesso tempo il mio cuore era carico di fiducia, trasmessa dal mio team che credeva in me quella mattina per quella tappa.

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CC0 Creative Commons

Attendevamo la partenza dietro la linea dello start.
Massaggiavo freneticamente le mie gambe per tenerle calde dopo il massaggio del nostro preparatore. Forse le muovevo per evitare che il tremolio indotto dalla mia agitazione fosse percepito anche dagli altri. Chi sicuramente sapeva come mi sentissi era il mio capitano, che prima di me, anni fa, aveva percepito le stesse sensazioni. Da parte mia riconoscevo questa tappa, la quattordicesima, come il mio crocevia: se avessi fatto bene sarei diventato un punto di riferimento per la mia squadra quest'anno e forse il prossimo anno qualcuno avrebbe veramente creduto in me; al contrario avrei potuto fallire e dover attendere, se mai ci fosse stata, una seconda possibilità.
Come spesso accade, l'attesa dell'evento è più logorante dell'evento stesso e così percepii con sollievo il via della tappa e magicamente mi sentii sollevato nel dover fare ciò che amavo: pedalare.

La tappa non fu delle più facili e sotto molti punti di vista la parte iniziale fece molta selezione. I tanti velocisti furono staccati dopo i primi 100 chilometri, appena oltre la metà della tappa, quando molto probabilmente la parte più dura doveva ancora arrivare. Il gruppo di testa, di cui facevo parte, era così scarno di ciclisti che spesso contavo quanti fossimo. In 8 stavamo gareggiando per la vittoria finale.
Durante le salite, quelle più dure, amavo pensare a qualcosa che non fosse il ciclismo: in quella giornata pensai alla mia famiglia ed in particolare a mio padre. Quell'uomo che mi aveva da sempre spronato a fare meglio, a non accontentarmi mai e che ci aveva lasciato quando avevo solo 16 anni. Un brutto male se lo era portato via, ma io, ricordando le sue parole, non lasciavo che la sua figura svanisse nel vento.
Fare bene!
Dare il massimo!
Così che i rimpianti, in seguito, non possano turbare il lieto vivere.

I miei pensieri erano spesso interrotti da quella macchia gialla, che come un pendolo, spesso oscillava di fronte ai miei occhi: era l'uomo da battere; lui era il cannibale. Colui il quale non si sarebbe posto nessuno scrupolo nel mangiarci tutti e sette. Era superiore a chiunque di noi in tecnica e mentalità. La maglietta gialla che indossava lo dimostrava e c'era poco da dire...ahimè. Avremmo dovuto, noi altri sette, lavorare di squadra per isolarlo e staccarlo.
Ma non sarebbe stato facile.
Il cartello dei -5Km mi fece intuire come fosse arrivato il momento di sferrare l'attacco. Era il momento giusto. Sapevo che se avessi dovuto fare una scelta, quello sarebbe stato il momento giusto. Senza troppi pensieri e con il rifiuto di voler poi un giorno dover dire "se l'avessi fatto", aumentai il ritmo della pedalata, mi alzai sui pedali e staccai gli altri. Francois Lapoix, francese della Dorotia, mi seguì a ruota ed insieme ci allontanammo dal gruppo. Non troppo, forse 10-20 metri, ma quel tanto che metteva alla dura prova la mente dei nostri più diretti inseguitori, ma allo stesso tempo anche e nostre gambe. Capii che Lapoix non avrebbe voluto fare squadra, ma solo puntare cinicamente alla vittoria, sul Mont Ventoux, che da francese quale era, conosceva molto bene.
Strinsi i denti e come se il dolore non fosse una qualcosa di accettabile nel mio corpo, continuai imperterrito a pedalare, alto sui pedali. Quei cinque chilometri furono i più duri della mia carriera. Sembravano infiniti, mentre da dietro il fiatone del mio rivale era sempre più intenso, ma non lontano. Ce lo avevo alla ruota ed era lui a tutti gli effetti il mio rivale diretto.

Puoi successe il dramma!

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A poche centinai di metri dal passaggio ai -2Km la gamba destra, in piena tensione e carica sul pedale cedette. Caddi rovinosamente ed anche il mio inseguitore mi tamponò. In un attimo finimmo entrambi a terra. Egli saltò nuovamente in piedi, montò in sella e recuperò la posizione di testa grazie all'aiuto di una supporter che lo spinse per tornare in ritmo.
Invece io, non riuscii neppure a rialzarmi: quella gamba destra, traditrice, non rispondeva più ai mei comandi. Il muscolo in realtà sembrava come perforato. Come se uno spillo mi avesse trafitto la pelle e la carne. Ma niente era infilzato nel mio arto. Mentre gli altri inseguitori mi passavano davanti e con essi anche la maglia gialla di Merckx, capii che si trattasse di uno stiramento. La frustrazione calò sul mio volto e su una sola gamba cercai di risalire in bicicletta. Fu dura, ma grazie all'aiuto di un tifoso, tornai a pedalare. Sembrava che un cane mordesse la mia gamba ogni volta che spingevo sul pedale destro. Ma dovevo raggiungere quel traguardo: per la mia squadra, per mio padre e per me. Così da non avere mai rimpianti in seguito.
Fu la sfida più dura di sempre, ma infine, stremato, riuscii a superare la linea dell'arrivo. Caddi nuovamente, sfinito ed a pezzi, non appena tagliato il traguardo. Caddi in un pianto profondo e portai le mie mani al volto. Fino a quando una macchia gialla non tentò di sollevarmi: colui che mi stava alzando non era un mio compagno di squadra, ma Eddy Merckx; quel cannibale che mi aveva mangiato in un solo boccone, era venuto in mio soccorso.

Lo sport non è solo un risultato, una vittoria o un record. E' un insegnamento continuo!

Con questo post partecipo al contest settimanale di @spi-storychain, in cui il tema era la maglietta gialla e l'ambientazione il 1970.

Sort:  

È stato veramente emozionante leggere questo tuo post, dall'inizio alla fine. Non sono un'amante di questo sport, ma prima con mio nonno, poi con mio padre e adesso con il mio compagno, ho seguito alcuni giri e tappe in tv.
Il tuo racconto è stato molto realistico , come se il protagonista fosse seduto accanto a me a raccontarmi l'accaduto.

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Grazie mille Paw!
Sono felice di essere riuscito a trasmettere questa sensazioni parlando di sport.
Un saluto ☺️👋

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Una grande gara col cuore! Ti ho seguito sino in vetta! E ho gridato di dolore q Merckx veniva chiamato anche il Figlio del tuono. Pare che il soprannome Cannibale l'abbia scelto una bambina, figlia di un dirigente del Tour, saputo che non lasciava mai tappe a nessuno.

Grazie del tuo contributo, Sbara, sempre molto utile e ricco!
Sono sorpreso della tua immensa cultura generale.
A presto☺️👍

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