Trading News $OIL

in #trading7 years ago

di boa dei 70 dollari al barile il petrolio rischia un’inversione di tendenza. Gli hedge funds hanno infatti spinto l’esposizione rialzista a livelli estremi, che potrebbero preludere – come è spesso accaduto in passato – a una brusca correzione.

Le quotazioni per il momento tengono. I ribassi di lunedì e martedì non si sono trasformati in un tracollo, nonostante gli analisti avessero evidenziato alcuni segnali tecnici allarmanti. E ieri c’è stato addirittura un lieve recupero, che a fine seduta ha riportato il Brent a 69,38 dollari (+0,3%) e il Wti a 63,97 $(+0,4%), molto vicino ai massimi triennali.

Il mercato resta comunque vulnerabile. Troppi investitori stanno scommettendo su ulteriori rincari e se per qualche motivo si scatenasse una fase di liquidazione l’impatto potrebbe essere brutale.

I fondi hanno accumulato un numero senza precedenti di posizioni lunghe, ossia all’acquisto: nella settimana al 9 gennaio su Brent e Wti ce n’erano per oltre un miliardo di barili, l’equivalente di quasi due settimane di consumi globali.

Tra gli speculatori ci sono più di dieci posizioni rialziste per ogni posizioni ribassista: uno squilibrio pericoloso, se qualcosa dovesse turbare lo scenario “ottimista” che oggi sembra essere prevalente, quello secondo cui la domanda petrolifera continuerà a crescere così tanto da riuscire ad assorbire volumi record di shale oil, mentre l’Opec e i suoi alleati conserveranno la disciplina dimostrata finora, anche quando sarà il momento di adottare un’exit strategy dai tagli produttivi.

Negli ultimi mesi non sono mancati segnali incoraggianti sul fronte dei fondamentali: dopo anni di surplus di offerta, la riduzione delle scorte petrolifere è sotto gli occhi di tutti e sta accelerando, proprio come voleva l’Opec.

Oggi, per la nona settimana consecutiva, le statistiche dagli Usa dovrebbero mostrare una riduzione degli stock. O almeno, questo è quanto si aspettano gli analisti. A Cushing – che come punto di consegna del Wti ha una grande influenza sul prezzo del barile – le scorte di greggio sono già scese sotto la media degli ultimi cinque anni.

Ma non è detto che la situazione continui ad evolversi senza scossoni. Persino nell’Opec serpeggia la preoccupazione che qualcosa possa ancora deragliare i piani: il ministro iraniano Bijan Zanganeh, che pure ha una fama di “falco”, qualche giorno fa ha dichiarato che «ci sono membri dell’Organizzazione che non vogliono un prezzo del Brent superiore a 60 dollari al barile, a causa dello shale oil».

La produzione di petrolio Usa ha già accelerato in modo rapido e vistoso, in reazione alla ripresa delle quotazioni del barile, che dall’estate scorsa sono più che raddoppiate: i tecnici del Governo americano ora prevedono che arriverà a 10,3 milioni di barili al giorno nel 2018 – un incremento di ben 970mila bg rispetto all’anno scorso – e che nel corso del 2019 verrà superata la soglia degli 11 mbg, più di quanto oggi venga estratto in Arabia Saudita e Russia (anche se i due Paesi hanno una capacità produttiva superiore e una minore proporzione di condensati).

Gli hedge funds potrebbero proseguire comunque le scommesse rialziste sul petrolio: le quotazioni a pronti sono oggi più alte di quelle a futuri, una situazione nota come backwardation, che garantisce un ritorno sugli investimenti anche semplicemente mantenendo la posizione, ossia riacquistando i contratti future man mano che giungono alla scadenza.

Ma è comunque cruciale che l’ottimismo sulle sorti del mercato non venga intaccato. Qualche crepa inizia ad aprirsi: i margini di raffinazione in Nord Europa sono scesi ai minimi da tre anni, segnala ad esempio Barclays, suggerendo che i consumi di greggio potrebbero risentirne. Le esportazioni di carburanti dalla Cina, secondo le previsioni annuali di Cnpc, la maggiore compagnia del Paese, sono avviate ad aumentare di quasi un terzo quest’anno, dopo il +7% del 2017.

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